Il piano sventato del vicepresidente Burr, l’«antenato» del tycoon
Un ritratto di Aaron Burr, vicepresidente di Thomas Jefferson
Internazionale

Il piano sventato del vicepresidente Burr, l’«antenato» del tycoon

America oggi Nel 1807 cospirò per staccare dall'Unione i territori dell'Ovest e della Louisiana. Fu assolto dall' accusa di alto tradimento perché non aveva impugnato le armi
Pubblicato più di un anno faEdizione del 4 agosto 2023

L’altra volta era accaduto nel 1807, 216 anni fa, quando un ex vicepresidente tentò non di prendere il potere con la forza a Washington ma di staccare gli Stati dell’Ovest e il Territorio della Louisiana dall’Unione. Il traditore si chiamava Aaron Burr e aveva dietro di sé una carriera ben più tumultuosa di quella di Donald Trump: nell’anno 1800, infatti, era quasi riuscito a scippare la presidenza a Thomas Jefferson, l’autore della Dichiarazione di indipendenza. Non solo: nel 1804 aveva ucciso Alexander Hamilton in un duello alla pistola. In entrambi i casi, fu assolto.

TUTTO ERA INIZIATO con l’acquisto della Louisiana, dalla Francia, nel 1803. Il territorio copriva l’intera valle del Mississippi ma i suoi confini erano contestati dalla Spagna, oltre che dalle tribù di nativi americani che ci abitavano da millenni. Burr credeva che, con una forza militare relativamente piccola e ben armata, avrebbe potuto impadronirsi del Sud-ovest degli Usa e costruirvi un proprio impero, magari anche conquistare il Messico.
Nell’agosto 1804 l’allora vicepresidente Burr contattò quindi Anthony Merry, l’ambasciatore inglese negli Stati uniti. Burr si offrì di aiutare la Gran Bretagna a sottrarre agli Stati uniti il territorio. Merry inviò immediatamente un dispaccio a Londra, descrivendo nei dettagli l’offerta di Burr di «effettuare una separazione della parte occidentale degli Stati uniti» dal resto del Paese. In cambio, Burr voleva denaro e navi per portare a termine la sua conquista.
Nell’aprile del 1805, poco dopo la fine del suo mandato, Burr iniziò una missione di ricognizione nel West. In una città dopo l’altra, lasciò intendere la spedizione che stava per arrivare. E, città dopo città, incontrò uomini che credeva lo avrebbero sostenuto nella sua impresa. Uno di questi, Harman Blennerhassett, si sarebbe dimostrato un fedele seguace.

TROVÒ UN ALLEATO anche nel generale James Wilkinson, governatore della Louisiana settentrionale, arrogante, senza scrupoli e con una passione smodata per il whisky. Wilkinson rappresentava una scelta logica: controllava l’esercito, poteva spostarsi senza suscitare sospetti e coltivare alleanze. Ma Burr cercava anche sostenitori con un potere maggiore: i membri della Mexico Society, un gruppo di uomini d’affari di New Orleans favorevoli all’annessione del territorio messicano nell’Ovest.

Nel 1806, Burr inviò a Wilkinson una lettera in codice che illustrava i suoi piani. Il documento sarebbe diventato noto come Lettera cifrata e avrebbe avuto un ruolo importante nel processo per tradimento. Burr partì da Pittsburgh per creare una base militare su un’isola del Mississippi ma le voci sul complotto erano ormai ovunque. Fu chiamato per tre volte a rispondere alle accuse di tradimento da un tribunale del Kentucky. Ogni volta fu assolto ma ormai il piano era fallito.

Il generale Wilkinson scelse di salvarsi la pelle e inviò una lettera al presidente Thomas Jefferson in cui descriveva la cospirazione, ma senza nominare Burr, il cui ruolo era comunque su tutti i giornali. I soldati di Fort Stoddert, nel Territorio della Louisiana, catturarono il fuggitivo in una mattina di febbraio del 1807, su una strada fangosa vicino alla frazione di Wakefield.

IL 13 FEBBRAIO 1807, Burr, comparve di fronte alla corte federale di Richmond, in Virginia, per essere processato per tradimento: fu il processo del secolo. Malgrado le prove, tra cui la lettera cifrata con i piani per la secessione, il giudice della Corte Suprema John Marshall insistette sul fatto che la Costituzione definisce il tradimento in modo molto specifico: «Sarà considerato tradimento nei confronti degli Stati uniti soltanto l’aver impugnato le armi contro di loro o essersi uniti ai loro nemici, fornendo loro aiuto e sostegno». In base a questa rigida definizione le azioni di Burr non erano sufficienti a configurare un tradimento, quindi fu assolto. Fu costretto però a fuggire in Europa dalla reazione dell’opinione pubblica.

POTREBBE ACCADERE qualcosa di simile a Donald Trump? In realtà il procuratore speciale Jack Smith non lo ha accusato di tradimento proprio per questa ragione: una giuria potrebbe decidere che far assaltare il Congresso da una folla di seguaci non costituisca «aver impugnato le armi» contro gli Stati uniti. Le accuse sono quindi minori ma comunque sufficienti per mandarlo in galera per parecchi anni se giudicato colpevole. I suoi avvocati stanno già sostenendo che le menzogne di Trump sui presunti brogli elettorali nelle elezioni del 2020 sarebbero comunque protette dalla libertà di parola garantita dal Primo emendamento. Naturalmente non sperano veramente che la giuria accetti questa tesi: le prove contro di lui sono schiaccianti e, tra l’altro, il suo vicepresidente Mike Pence e il suo capo di gabinetto Mark Meadows testimonieranno contro di lui. Ma i tempi potrebbero allungarsi, la giuria potrebbe non riuscire a raggiungere un verdetto unanime, una condanna potrebbe essere rovesciata in appello. Come Aaron Burr, Trump spera di cavarsela.

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