È il fascino indiscreto, e talora scomodo, delle dittature. Siamo stati amici di Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini, di Gheddafi quando era il “guardiano” dell’Africa; persino Putin e Assad ci sono serviti contro l’Isis, l’egiziano Al Sisi adesso è utile contro le migrazioni, il turco Erdogan, sultano dalle ambizioni neo-ottomane, è anche membro nella Nato. Eppure questi ultimi due, nostri amici e alleati, si sono congratulati vivamente con Putin per la sua rielezione che noi condanniamo con veemenza per una repressione sistematica e impietosa degli oppositori.

Ma Al Sisi non ha invaso il suo vicino, ammonisce il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Vero. Gli è bastato invadere il suo Paese e imbastire un sanguinoso colpo di stato nel luglio 2013 per abbattere un governo che poteva non piacere, quello dei Fratelli Musulmani, ma che era stato eletto regolarmente e approvato persino dagli Stati uniti di Obama.

Tre settimane prima del golpe del generale egiziano ero all’ambasciata italiana del Cairo a incontrare i rappresentanti di quell’esecutivo, accolti con il dovuto rispetto, intervistati e filmati dai media. Ora molti di quei politici e militanti sono morti o li attende la forca. Questo è il Paese dove ha perso la vita Giulio Regeni, torturato e ucciso dai poliziotti di Al Sisi, sotto processo a Roma ma che il generale continuerà a proteggere.

Questo è il prezzo di quel colpo di stato, paragonato a quello di Pinochet in Cile dal Nobel della letteratura Orhan Pamuk, costato migliaia di vittime, centinaia di migliaia di persone incarcerate e alla fine anche il fallimento dello stato egiziano e di governanti che non sanno uscire dalle loro contraddizioni.

In Egitto oltre il 30% della popolazione – 114 milioni di abitanti – vive sotto la soglia di povertà. I tecnocrati di Sisi hanno tagliato pesantemente il carburante e altri sussidi ai consumatori durante una precedente tornata di riforme quindi l’attuale deficit del bilancio è causato soprattutto da aziende statali inefficienti e da costosi progetti infrastrutturali. Ma tenere sotto controllo questa élite – ci informa Barron’s, pilastro dell’informazione finanziaria Usa – potrebbe rivelarsi ancora più impegnativo, poiché incide sull’esercito egiziano, i cui tentacoli economici si estendono attraverso l’economia.

Non è chiaro se Al Sisi possa mantenere il potere se esautora i militari: in realtà i finanziamenti che stiamo dando al Cairo non salvano un Paese e il suo popolo ma il colpo di stato del generale-presidente.

Come scrive Barron’s, l’Egitto è un Paese sull’orlo del fallimento, con un debito estero di oltre 160 miliardi di dollari, e interessi da pagare per 40 miliardi di dollari l’anno che si divorano tutte le entrate dello stato. Ma come si dice nel miglio quadrato di Londra “It’s too big, to fail”, è troppo grande per fallire. Gli Emirati arabi uniti, il Fondo Monetario e l’Unione europea hanno sottolineato con forza questo punto promettendo in queste settimane circa 40 miliardi di dollari in investimenti e prestiti, di cui 8 vengono dal Memorandum d’intesa firmato domenica con Ursula Von de Leyen (accompagnata da quattro premier europei tra cui Meloni). In realtà aggiungendo i prestiti della Banca africana e di altre fonti si arriva a circa 60 miliardi di dollari.

Poi l’Italia ci mette sopra come ciliegina il Piano Mattei, soldi e progetti già previsti dalla Cooperazione, un gioco di bussolotti in cui l’unica a fare qualche grosso affare è l’Eni, salvo che non inciampi come nell’ottobre scorso negli appalti israeliani del gas offshore che appartiene ai palestinesi di Gaza. Mattei, che aveva sostenuto la lotta anti-coloniale degli algerini contro i francesi, si rivolterebbe nella tomba. Altro che capitalismo non predatorio: vatti a fidare di Tel Aviv.

Il generale-presidente egiziano è così messo male che si sta vendendo a pezzi il Paese. Gli Emirati ha promesso un acconto di 24 miliardi di dollari per un resort grande quanto Londra da costruire sulla costa del Mediterraneo nell’Egitto occidentale. E adesso si parla di vendere anche Alessandria con il suo porto e le sue magnifiche attrattive.

Ma perché siamo così generosi con il generale golpista del Cairo? Se gli israeliani attaccheranno a Gaza il valico di Rafah migliaia di palestinesi cercheranno di fuggire alla morte nel Sinai egiziano, come previsto sin dall’inizio dai documenti militari pubblicati in ottobre da Haaretz.

La realtà è che noi amiamo i dittatori e le finte democrazie. Netanyahu è il leader che è stato più volte al Cremlino. Non ha messo sanzioni a Mosca né dato una pallottola a Zelenski. Gli alleati di Putin in Medio Oriente per tenere in piedi il siriano Assad, Hezbollah e pasdaran iraniani, sono nemici di Israele. Ma Putin non ha mai detto una parola contro i raid israeliani in Siria. In fondo Netanyahu “aiuta” Putin a tenere a bada alleati difficili e ognuno massacra chi vuole nel cortile di casa sua, che sia in Ucraina, a Gaza o al Cairo, mentre le monarchie assolute del Golfo stanno zitte e sperano di farla franca davanti alle stragi dei palestinesi.

Tre quarti dell’umanità non fa una piega contro i massacratori. L’Europa intanto paga Al Sisi come paga Erdogan per tenersi i migranti e tutti e due sono amici di Putin. Mentre gli Usa vendono armi a tutti, poi si vedrà chi resta in piedi. Di «collettivo» in questo Occidente ci sono solo i discorsi ipocriti degli europei sulla democrazia e la nuova «economia di guerra». Ma chi invade chi?