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Il «piano Draghi», se l’europeista dimentica l’Europa

Mario DraghiMario Draghi

Forum disuguaglianze diversità Le conseguenze del Piano favorirebbero una maggiore concentrazione del potere economico e politico, acuirebbero le tendenze già in atto verso la de-democratizzazione, aumenterebbero le disuguaglianze

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Lo scrittore argentino Jorge Luis Borges scrisse che «gli animali si dividono in: a) appartenenti all’Imperatore; b) imbalsamati; c) addomesticati; d) maialini da latte; e) sirene; f) favolosi; g) cani in libertà; h) inclusi nella presente classificazione» e così via enumerando, fino all’ultima categoria: «n) che da lontano sembrano mosche».

Nel suo libro su Le parole e le cose, del 1966, il filosofo francese Michel Foucault dichiarava di essersi ispirato per il proprio lavoro a questo testo di Borges, al senso di comico disorientamento che esso aveva provocato in lui.

Simile è lo stupore che colpisce nel tentare di classificare le reazioni al rapporto The Future of European Competitiveness, noto come «Piano Draghi». Le reazioni si dividono in: a) entusiaste perché l’ha scritto Draghi; b) denigratorie perché l’ha scritto Draghi; c) che si fermano al titolo; d) che non leggono il titolo; e) incluse nella presente classificazione; f) che si leggono in montagna; g) che da lontano sembrano moltitudini.

Per fortuna, c’è ancora chi prende sul serio il ruolo della critica informata, bilanciando e soppesando con acribia interpretativa le proposte che – come quelle contenute nel rapporto in questione – vanno prese sul serio. Tifosi e critici per default, infatti, hanno in comune il terribile difetto di non prendere sul serio le proposte che adorano o che detestano. Tutto è scaraventato nel regno del pre-testo, senza accollarsi il rischio di entrare nel testo che si ha dinnanzi, quindi senza mettersi a repentaglio rischiando anzitutto la propria identità e le proprie convinzioni. Il ruolo dei partiti e dei mondi a essi collegati, quando c’erano, era anche questo.

Per fortuna, dicevamo, c’è chi questo ruolo le ricopre ancora. È il caso del Forum Diseguaglianze e Diversità che al Rapporto Draghi dedica un’analisi minuta e approfondita. Il messaggio del Forum è chiaro e diretto. Per valutare il rapporto occorre non fermarsi al «grande distrattore» ivi contenuto – gli 800 miliardi di euro annui di spesa – che ha catturato anche i critici: «Si torna a spendere», «si è rotto un tabù», «è finita la sacralità dell’austerity» è stato infatti sostenuto.

Anzitutto il Piano mostra un enorme problema di metodo, dal momento in larga parte è stato assunto come un dato dalla macchina istituzionale, politica e amministrativa della Commissione, senza di fatto un confronto in Parlamento Europeo o in altre istituzioni dell’Unione. Assenza di confronto istituzionale, questa, che si accompagna a una strategia precisa, visibile solo studiando il documento. Non, dunque, solo una somma tecnocratica di «azioni senza istituzioni», non una lista della spesa scritta da un tecnocrate, ma un menù politico con ricettario annesso per una cena a inviti molto selettivi.

Il piano guarda agli Usa come modello, qui risiede il primo e forse maggiore problema sostanziale rilevato dall’analisi del Forum. La scelta è di individuare negli Usa lo standard di riferimento, senza però coglierne la fragilità economica e sociale e – soprattutto – con una grande disattenzione ai valori fondamentali e ai punti di forza dell’Unione europea. Il paradosso del Piano Draghi è questo: un disegno per l’Europa dove… l’Europa è assente, tanto nelle sue dimensioni istituzionali che in quelle civili e culturali. In secondo luogo, il Piano è costruito su una insostenibile e davvero fuori dal tempo ipotesi di neutralità tecnologica che lascia al solo mercato la scelta delle tecnologie e del loro impiego. Posizione accompagnata dalla mancata analisi di cosa conviene di più all’Europa nell’attuale e instabile scenario geo-politico e da un ruolo ancillare – se non residuale – della dimensione sociale.

Questi limiti condizionano i rimedi messi in fila dal Piano, sostiene il Forum, che molto onestamente, riconosce anche la validità di specifiche idee in singoli settori. Il tutto, però, all’interno di una strategia che se attuata farebbe male all’Europa.

Le conseguenze del Piano favorirebbero una maggiore concentrazione del potere economico e politico, acuirebbero le tendenze già in atto verso la de-democratizzazione, aumenterebbero le disuguaglianze, aggraverebbero la distanza dell’Unione dalle aspirazioni e idee della società e delle persone, relegherebbero la Ue nei rapporti internazionali ad una posizione rigidamente predeterminata, nonostante un quadro globale che richiederebbe un rapporto con alcuni dei grandi assenti del Piano: il Sud Globale e l’Africa.

Una postura cieca alla frattura fra ambiente, economia e società che la policrisi in corso ci ha consegnato. Come se vivessimo ancora nel decennio ’80-‘90. Un Piano, quindi, che viene da un tempo sospeso, con lo sguardo rivolto al passato e che vede il futuro solo attraverso le lente deformante del modello degli Usa. Un Piano che dimentica la differenza specifica europea, forse perché – senza poterlo dire – nell’Europa non crede più.

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