Quando si apriranno le urne nessuno lo sa, forse dopo l’estate, più probabilmente all’inizio del 2025. Ma in Israele due giorni fa è comunque cominciata la campagna elettorale. Ad aprirla è stato Benyamin Netanyahu. Giornali e analisti, locali e internazionali, quando scrivono del premier israeliano continuano a privilegiare il tema del suo divario con l’Amministrazione Biden sul futuro di Gaza e l’idea di uno Stato palestinese come soluzione del conflitto in Medio oriente. Ma la conferenza stampa convocata due giorni fa da Netanyahu ha avuto come obiettivo l’opinione pubblica israeliana e non solo lo scopo di contrastare alla luce del sole le posizioni espresse dagli alleati americani.

Cavalcando l’onda della rabbia di quasi tutti gli israeliani ebrei nei confronti di Gaza e dei palestinesi – che resta intatta a più di tre mesi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre – e della loro contrarietà all’ipotesi di intavolare negoziati, Netanyahu si è proclamato l’argine di cui Israele avrà bisogno in futuro contro nemici e falsi amici dentro e fuori il paese.  Il premier immagina di poter sovvertire il risentimento popolare nei suoi confronti – per non aver saputo impedire l’attacco di Hamas nel sud di Israele – mostrandosi inflessibile e collegando il suo futuro politico al secco «no» allo Stato di Palestina e alla spiegazione che il conflitto tra israeliani e palestinesi non riguarda l’assenza di uno Stato palestinese, ma l’esistenza stessa dello Stato ebraico. «Quando ci ritiriamo da un territorio, il terrore si rivolge contro di noi», ha detto Netanyahu. Da qui la sua richiesta perentoria di un controllo di sicurezza totale nelle mani di Israele dal mare al fiume Giordano. Ciò è in conflitto con l’idea della sovranità palestinese ma, ha detto il primo ministro, «non c’è nulla che si possa fare al riguardo…Ho spiegato questa verità agli americani».  Oggi, ancor più che in passato, queste cose le pensano un po’ tutti gli israeliani ebrei disposti a sopportare perdite di soldati e mezzi in combattimento pur di «risolvere una volte per tutte il problema Gaza» e di infliggere un colpo durissimo ai palestinesi. Fa eccezione una minoranza molto attiva, ma esigua.

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Se ora l’immagine del premier appare compromessa, tra mesi quando dovrebbero tenersi le elezioni – qualcuno le prevede solo nel 2025 -, Netanyahu potrebbe avere avuto il tempo di ricompattare intorno alla negazione dei diritti dei palestinesi l’elettorato di destra e le forze ultranazionaliste che alla fine del 2022 lo riportarono al potere. E se nelle prossime settimane i soldati israeliani riusciranno a liberare almeno una parte degli ostaggi a Gaza o a colpire in profondità Hamas, il primo ministro potrà attribuirsi il merito di questo «successo». L’analista Avi Gil scriveva ieri su Haaretz che Netanyahu, quando sarà davanti alla commissione d’inchiesta sul fallimento del 7 ottobre, avrà buone chance di dimostrare che la sua politica di «contenimento di Hamas», portata avanti per anni, non era sbagliata e aveva il sostegno di larga parte degli israeliani.

Che la campagna elettorale sia iniziata peraltro l’ha confermato indirettamente l’ex capo di stato maggiore Gadi Eisenkot che, in una intervista concessa alla famosa giornalista Ilana Dayan mentre Netanyahu preparava la sua conferenza stampa, si è proposto, assieme al suo compagno di partito Benny Gantz (il politico più popolare nei sondaggi), come la componente «ragionevole» del gabinetto di guerra israeliano, disposta a riconoscere che l’offensiva militare non potrà raggiungere l’obiettivo dichiarato della distruzione completa di Hamas e della liberazione degli ostaggi. Una strategia che sul medio-lungo periodo potrebbe rivelarsi perdente.

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In questo clima continua la campagna militare israeliana che si è intensificata negli ultimi giorni nel sud di Gaza e si sta espandendo in Cisgiordania. Dopo 45 ore e quattro palestinesi uccisi da un drone, ieri sera l’esercito israeliano ha concluso la sua nella città di Tulkarem e nei vicini campi profughi in cui sostiene di aver ritrovato armi ed esplosivi e di aver perquisito numerose abitazioni ed effettuato arresti. «Hanno distrutto tutto, le strade, le infrastrutture, acqua ed elettricità. Sono entrati nelle case sfondando le porte, le hanno bombardate», ha riferito ai giornalisti Majida Abu Mariam, una abitante. Nell’ultima settimana sono stati uccisi almeno 12 palestinesi in Cisgiordania. L’ultimo ieri a Aiyun Haramiya, sulla strada 60 che collega Ramallah a Nablus. Un colono avrebbe aperto il fuoco contro un gruppo di giovani che lanciavano sassi alle auto israeliane uccidendo Tawfiq Ajaq, 17 anni.

A Gaza la Mezzaluna rossa palestinese ieri ha accusato Israele di aver sparato contro l’ospedale Al Amal di Khan Younis durante l’avanzata nel cuore della principale città del sud della Striscia di Gaza. Diversi sfollati, ha scritto, sono rimasti feriti «a causa dei colpi sparati da droni israeliani che hanno preso di mira l’ospedale». Nella stessa città, i carri armati israeliani si sono avvicinati al più grande ospedale ancora funzionante di Gaza, il Nasser, dove pazienti e sfollati hanno riferito di aver sentito esplosioni a poca distanza. Nel nord della Striscia, 12 persone sono state uccise negli attacchi israeliani contro un edificio vicino all’ospedale Al Shifa di Gaza city, in gran parte non funzionante.

Hani Bseiso, medico e figlio del poeta Mouin Bseiso, ha raccontato a una agenzia di stampa di essere stato costretto un mese fa ad amputare la gamba della nipote Ahed, con forbici, garze e filo da cucito, senza anestesia e a casa. I carri armati israeliani avevano bloccato la strada verso l’ospedale più vicino, ha detto. «La scelta era se lasciare morire la ragazza oppure provare a fare del mio meglio per salvarla».  Migliaia di bambini a Gaza hanno subito amputazioni a causa della scarsa igiene e della carenza di medicinali.

Il ministero della Sanità di Gaza ha comunicato che 142 palestinesi sono stati uccisi e 278 feriti tra giovedì e ieri mattina, facendo salire il bilancio delle vittime dell’offensiva israeliana a 24.762.