Mai come in questa occasione le primarie del Partito democratico si presentano come una sfida vera, di cui non si conosce il risultato in anticipo. Non era mai successo dal 2007, quando questo partito è stato fondato.

Nel ground zero della sinistra seguito alle politiche di settembre e poi alle regionali, nel deserto dell’affluenza alle elezioni vere che riguarda in maniera sempre più consistente le fasce più fragili della popolazione, questo appuntamento non è di secondaria importanza. Dal risultato delle primarie infatti dipenderà il profilo della principale forza di opposizione al governo più a destra della storia repubblicana.

E anche il profilo di quella che, a un certo punto, sarà la coalizione che dovrà tentare di battere Meloni e soci. Non è solo una questione che riguarda le diverse personalità di Bonaccini e Schlein, le loro storie, i loro caratteri. Ma soprattutto la direzione politica che vorranno imprimere a un partito mai come oggi in crisi d’identità, a quali soggetti sociali si rivolgerà, con quali priorità su temi come il lavoro, il cambiamento climatico, la distribuzione delle ricchezze, il fisco, la scuola. Da queste scelte seguiranno anche le alleanze, rimaste fuori dal dibattito delle primarie, ma destinate prima o poi a tornare in agenda.

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MAI COME OGGI il profilo futuro del Pd è in discussione. La serie di sconfitte che ormai durano da dieci anni ha finalmente messo in crisi alcuni capisaldi che sembravano intoccabili: il partito interclassista, che si rivolge indistintamente a tutti gli italiani a prescindere dalle loro condizioni, non è più un totem per una parte dei dem. Così come la vocazione maggioritaria, la sostanziale equidistanza tra lavoratori e imprese, e l’adesione acritica all’ideologia del neoliberismo, che ha sostituito le vecchie ideologie che si pensava di rottamare.

L’avvento di Meloni al potere ha disintegrato molte certezze, a partire da quella di inseguire il centro, la moderazione economica e sociale come unica chiave per portare il centrosinistra al governo. Una parte dei dem, da Goffredo Bettini a Andrea Orlando e Giuseppe Provenzano, in questi anni ha ribadito la necessità di una svolta socialista del Pd, per collocarlo dalla parte degli esclusi e invertire la rotta che lo ha portato a essere votato quasi esclusivamente da ceti urbani, istruiti, benestanti e garantiti. Ma la sinistra interna, per varie ragioni, non è stata in grado di esprimere una candidatura al congresso, tranne quella solitaria di Cuperlo.

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IL TESTIMONE DI QUESTA corrente di pensiero è finito nelle mani di una giovane donna, Schlein, appena rientrata nel partito dopo anni di militanza nell’arcipelago delle liste rossoverdi e non appartenente a nessuna delle correnti interne. Una rottura in termini generazionali (è del 1985) e di genere. Lei, che si era caratterizzata fino ad alcuni mesi fa per le battaglie sui diritti civili e sull’ambiente, in questo congresso ha messo a fuoco l’esigenza di correggere radicalmente le politiche che hanno favorito la precarietà di lavoro e di vita di almeno due generazioni.

Non solo il famigerato Jobs Act di Renzi, ma anche quelle che affondano le radici negli anni Novanta, quando si ritenne che le magnifiche e progressive sorti della globalizzazione imponessero più flessibilità, parola magica che ha significato svalutazione del lavoro e dei lavoratori.

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NELLA RIFLESSIONE di Schlein c’è dunque, come ha notato Fabrizio Barca sul nostro giornale, un passo avanti rispetto alla storia del Pd. Mentre Bonaccini sembra imputare la serie di sconfitte del centrosinistra alla qualità dei dirigenti, alla loro scarsa capacità di stare in mezzo alle persone e di parlare un linguaggio comprensibile. Una sorta di casta chiusa nei palazzi romani che potrebbe essere magicamente sostituita dai valorosi amministratori locali. Sulla falsariga di quanto annunciato dall’allora sindaco di Firenze Renzi nel 2013, pur non avendo Bonaccini la boria di quella carica rottamatrice.

Accanto al governatore si sono schierati tutti gli ex renziani rimasti nel partito e tuttora convinti della bontà delle ricette centriste e liberiste propinate dal governo Renzi. Da Luca Lotti a Lorenzo Guerini alla papabile vicesegretaria Pina Picierno. Ma il punto dirimente è che nel suo discorso manca un’analisi critica di questi 15 anni. E senza questa analisi è impossibile che la sua leadership possa dar vita a un centrosinistra rinnovato, competitivo e in grado di far tornare alle urne un popolo sfiduciato, fatto di giovani precari sfruttati e disoccupati, di un ceto medio sempre più impoverito e convinto che la politica non possa più migliorare le condizioni di vita di chi fa più fatica.

Dopo le elezioni politiche di settembre non c’è stato il processo costituente che era stato auspicato per rifondare una forza larga della sinistra. E tuttavia, tra le righe di un dibattito tropo ispirato al “volemose bene” tra il presidente dell’Emilia-Romagna e la sua ex vice, è emersa in modo abbastanza nitido la distinzione tra un approccio conservatore e uno che, almeno a parole, si propone di costruire un campo progressista di nuovo conio.

PUR MANTENENDO una distanza critica dai gazebo di oggi, consapevoli che già nella genesi del Pd c’è una rimozione della parola “sinistra”, dei suoi riferimenti sociali e ideali, e che dunque quel legno storto sarà difficile da raddrizzare per chiunque, tuttavia, di fronte a un governo che ogni giorno mostra la faccia feroce della destra, guardiamo con attenzione a quello che succederà. Consapevoli che tutte le altre forze di sinistra e ambientaliste (quelle più votate alla coalizione e quelle meno), dovranno confrontarsi con il/la nuovo/a leader e col nuovo corso. Non solo per una questione di genere, dunque, oggi speriamo che sia femmina.