Con riferimento alle preoccupazioni dei deboli e dei bisognosi che vivono in diverse zone del Sudan, in particolare nelle regioni del Paese colpite dalla guerra (come il Darfur, il Nilo Azzurro, le montagne di Nuba ecc.), proverò a descrivere meno del 10% delle violazioni dei diritti umani, delle libertà fondamentali calpestate e delle sofferenze quotidiane della popolazione.

DOPO IL 19 NOVEMBRE 2019, quando la rivoluzione sudanese ha deposto l’ex presidente Omar al-Bashir, avevamo creduto che il Sudan sarebbe diventato come il resto dei paesi del mondo, ma un gruppo ristretto di politici e militari ha preso il potere dando vita a un governo condiviso fra loro che si è completamente disinteressato delle condizioni di vita dei cittadini; così il popolo sudanese è sceso nuovamente in strada per protestare in tutte le città del paese, in particolare nella capitale Khartoum.
E questa è la premessa.

In fila per l’acqua nella periferia sud della capitale

Per quanto riguarda le condizioni di vita oggi, la qurush (moneta nazionale) è in mano ai militari e ai pochi cittadini che sostengono il governo, mentre gran parte del popolo sudanese non trova cibo per sé e per i propri figli. Ad esempio, in occasione dell’Eid al-Adha, la festa del sacrificio (una delle principali feste religiose islamiche) in molti non hanno potuto avere l’agnello, un animale molto importante in questa celebrazione per le famiglie musulmane, e da più case si sono sentiti i bambini piangere.

Quando uno dei componenti della famiglia si ammala, non ha soldi per curarsi: gli ospedali infatti accettano solo i malati che sono disposti a pagare; tante persone muoiono per mancanza di cure. A Khartoum c’è un solo ospedale aperto e gratuito: una cardio-chirurgia pediatrica messa su e gestita da Emergency. Mia moglie soffre di forti dolori alla testa: tre mesi fa sono andato con lei in ospedale per una visita ma non possedevo i soldi che il medico mi chiedeva; ho potuto poi pagare dottore e medicine grazie ad aiuti di amici europei: le hanno diagnosticato il Lupus, dovrà quindi curarsi per tutta la vita. Cosa molto difficile qui.

SE NEI PICCOLI VILLAGGI e nelle campagne i tristemente famosi “janjaweed” (un braccio armato del governo sudanese già dagli anni di al-Bashir) vanno ad aggredire e a uccidere i “neri” a loro invisi e ad incendiare case e stalle (ora le spedizioni non vengono più fatte a cavallo, ma a bordo di potenti automobili), sono ormai molti mesi, diciamo pure anni, che la situazione si è fatta pericolosa anche dentro la capitale: le mobilitazioni contro il governo sono continue e i militari rispondono sparando; andare nelle strade comporta dei rischi e la gente (quei pochi che un lavoro ancora ce l’hanno) è spesso impossibilitata a raggiungere il posto di lavoro o ad andare a comprare qualcosa. Anche uscire di casa con una borsetta è sconsigliabile perché gli scippi sono quasi certi.

Alcune settimane fa i manifestanti hanno chiuso i ponti che collegano le diverse parti della città, che sono rimaste così isolate. Mi chiedo se questo non equivalga a stare in carcere, se non addirittura peggio, perché in questa situazione non c’è niente di garantito, niente di sicuro, nessun servizio. Internet non è accessibile continuativamente (in una settimana mediamente l’abbiamo per 4 giorni su 7, ma ci sono settimane in cui manca sempre); la stessa elettricità è a singhiozzo, a volte l’erogazione è garantita solo poche ore al giorno. E la cosa che sembra più assurda in una città irrigata da due fiumi (il Nilo azzurro e il Nilo Bianco) è la carenza fortissima di acqua per tutti noi cittadini non potenti e non corrotti.

RECENTEMENTE sono dovuto andare in Darfur per sostenere alcuni miei parenti in seguito a un evento drammatico che è capitato loro. I fatti sono questi: due miei cugini, Othman Babker e Ibrahim Babker, il giorno 2 agosto stavano coltivando i loro campi nei pressi di Jabel Marra quando due uomini (subito identificabili come “janjaweed”, sia per le fattezze arabe-non africane sia per la tipica prepotenza che esprimeva già la certezza di impunità) hanno fatto entrare in quei terreni le loro mandrie di bovini e cammelli perché potessero pascolare; la più che legittima protesta dei due agricoltori è stata ignorata dai janjaweed, che hanno lasciato lì i loro animali.

Ma ecco che arriva un terzo uomo, munito di kalashnikov. Non parla con nessuno, non cerca di capire, quello che vede è già per lui chiaro e chiara nella sua mente è la parte con cui schierarsi. Spara. E ammazza entrambi i contadini. Poco dopo ne uccide un terzo, in un campo vicino.
Questi i tristi fatti. La testimonianza oculare è di un quarto agricoltore che si era arrampicato su un albero e nascosto fra le fronde ha potuto vedere tutto, senza essere individuato.

I MIEI CUGINI avevano uno 30 anni e l’altro poco più di 20; il primo sposato e padre di due bambini, il secondo ancora uno studente. Sono lutti dolorosi, che provocheranno altra miseria, perché la domanda ora è “chi coltiverà quei campi?”. Sono morti ingiuste e assurde che nella loro “ordinaria follia” illustrano in quale situazione di impotenza, di paura, di angoscia si vive in questo nostro Sudan, dove ogni azione che si compie equivale a un atto di coraggio.

* Membro della “Rural Sons Charity Organization” (purtroppo inattiva dal 2016 per interruzione dei contributi europei)