Il mio batterio di fronte alla dea Lakshmi
Speciale In Asia Viaggio all’interno del mondo medico indiano dove si usa la mano sinistra - quella impura - per interagire con il personale ospedaliero
Speciale In Asia Viaggio all’interno del mondo medico indiano dove si usa la mano sinistra - quella impura - per interagire con il personale ospedaliero
Urine culture? Nessun problema, sir. Siamo a sua disposizione, col nostro laboratorio fully computerized. Digitalizzato e vicino, il Med Path Lab è a pochi isolati dal mio appartamento in un quartiere residenziale di Mumbai. Scendo dal motorisciò e sulla soglia della reception porgo a un’infermiera la fiala sterile con la mano sinistra che è la mano delle cose impure (sfera in cui rientrano le abluzioni intime e i contatti sessuali, col conseguente obbligo di usare solo la destra a tavola).
Chiedo quando saranno pronti i risultati. Mi dicono tra un’ora. Un po’ troppo veloci, penso. Torno il giorno dopo, mi danno un pezzo di carta con scritto: no growth. Nessun sviluppo batterico nelle urine, quindi. Sembrerebbe che il vampiro annidato nel mio apparato uro-genitale se ne sia andato dopo la cura di aglio e tetraciclina. Scomparso.
Avrà funzionato l’antibiotico che ho comprato senza ricetta in una farmacia gestita da due bambini che al mio arrivo se le stavano dando di santa ragione e che dopo di me hanno venduto tre chili di mango a una signora avvolta in un sari verde sintetico? No, non credo: i dolori sono ancora forti, enfatizzati dal letto di cemento e dal materasso di due centimetri.
Dormire la notte, col caldo umido, è sempre più difficile. Il batterio è sempre lì, lo sento dentro di me agitarsi la notte, riprodursi e togliermi il sonno. Non ho scelta: mi serve un medico. In teoria la sanità è accessibile in India, ma i soldi fanno la differenza tra un consultorio di villaggio e un ospedale attrezzato. Ricordo di quella volta che mi ruppi un dito del piede nel Kerala.
Ero nella zona acquatica delle risaie e delle Backwaters assieme alla mia compagna, in un villaggio con un solo presidio medico con un’ala per i lebbrosi. Nessuno parlava inglese e io non sapevo il Malayalam. Solo il medico riusciva a dire poche parole nella lingua di Shakespeare. Comunicammo quasi a gesti su due seggiole nell’unico salone in cui stavano pazienti e visitatori. Presto mi ritrovai circondato da contadini e pescatori, malati o loro familiari, che senza capire una parola di quel che provavo a dire mi suggerivano terapie che io non comprendevo. A un certo punto il medico si stufò e per garantirmi un po’ di riservatezza e poter intendere meglio il mio inglese mi portò in uno stanzino.
La porta rimase chiusa per poco: i malati e i loro parenti la socchiudevano per spiarmi. Un ragazzo si infilò dicendomi. «Your Home?» che in India significa «Where are you from?». Io risposi «Italy». «Near Australia?», replicò. «No, Italy, Europe». «Ok, Ucraina». Arrivò un altro e con un sorriso trionfale imbeccò la questione geopolitica. «Italy, Roberto Baggio». «Yes, yes, Baggio!», annuii sfinito.
Alla fine il medico si stufò, sbatacchiò la porta sulla mano di un curioso e mi disse che il mio dito era o rotto o lussato, che comunque non avevano la macchina per farmi una radiografia e che se potevo camminare che camminassi: sarei presto guarito da solo.
L’importante era mangiare vegetariano, non bere alcolici e rimanere puri. I consigli funzionarono e guarii presto. Non era quello il mio esordio in un ospedale indiano. Prima ero andato in un ospedale per ricchi e turisti stranieri di Bangalore, città della Information Technology, e le cose erano state diverse. Da giorni non potevo camminare per un dolore terribile al ginocchio. Lì mi fecero una memorabile radiografia, durante la quale riuscii a far quasi svenire la radiologa: in India ci si deve infatti infilare un pigiama per fare le radio. Io non lo sapevo e rimasi in mutande. Lei arrossì e mi indicò uno stanzino, io capii male il suo inglese dal forte accento kannada pronunciato con la mano davanti alla bocca e cominciai a togliermi anche le mutande.
Così lei scappò urlando convinta che fossi un maniaco e io mi rassegnai all’arresto per vilipendio della morale. Invece entrò nella stanza un radiologo maschio che con un sorriso trionfale mi spiegò che lui aveva studiato a Londra (l’equivalente del militare a Cuneo) e sapeva come noi europeans siamo abituati: insomma, non ero un esibizionista. Alla fine avevo solo un’infiammazione dei legamenti che si poteva curare con una pasticca sfusa senza confezione né bugiardino venduta dal farmacista che smerciava anche ricariche dei cellulari e dvd di Bollywood, e solo per me volendo anche film americani molto particolari con attrici bianche inglesi, molto bionde, sir.
I dolori continuavano ma le analisi confermavano no growth seen, cioè nessun batterio presente. Provai un altro laboratorio, ancora più lussuoso del precedente. Vidi che ci entravano molti occidentali, lasciai le mie scarpe fuori dalla porta, entrai congiungendo le mani di fronte alla dea Lakshmi dalle monete sonanti (antifona che qui si pagava e bene) e spiegai il mio problema.
Ero un po’ impacciato, visti i precedenti e dovendo interloquire con tre infermiere con un sari rosso, giovani, coi capelli lunghi e senza i segni del matrimonio ai piedi e al collo.
Queste precisarono subito che il loro in realtà era un centro per la cura dell’infertilità. Potevano comunque cercare i batteri con un esame più accurato, ovvero il semen culture, ossia lo spermiogramma. Mi portarono tutte assieme ridacchiando e parlando in marathi in uno sgabuzzino e mi lasciarono una fialetta per il campione, poi uscirono rapide ridacchiando come le ancelle di Seetha.
Dopo un po’ consegnai imbarazzato il campione. Mi dissero di pagare e di tornare dopo qualche giorno per i risultati, consegnandomi una ricevuta su carta fina indiana di 1500 rupie. Tornai: ripassai davanti alla dea della fertilità economica, lasciai il mio nome alle tre ancelle di Seetha, aprii la busta. Il risultato era lo stesso: no organisms detected. Eppure i dolori rimanevano. Chiesi di parlare con una dottoressa. Spiegai che sentivo male nella zona tra il pube e l’ombelico. Lei mi consigliò un altro test che cominciava dall’esame chimico e microscopico del seme e includeva anche uno studio della fertilità e del numero e del movimento degli spermatozoi. Vidi scivolare i piedi scalzi delle ancelle di Seetha e sentii risuonare le loro cavigliere nascoste dai lunghi sari rossi. Accettai di sottopormi a questo nuovo test, consapevole che ormai era labile il confine tra erotismo patogeno e onanismo parasanitario.
Il giorno fatidico tornai alla reception e consegnai l’ampolla alle ancelle di Seetha, sempre con la sinistra. Poi riaprii il portafoglio, altra ricevuta su carta sottile, 3000 rupie, consegnate con la destra, che i soldi non fanno schifo a nessuno. Mi ripresentai dopo tre giorni per i risultati del test sulla fertilità. Chiesi al risciò driver di aspettarmi, tanto era cosa rapida.
Le scarpe fuori, la dea, le ancelle. No, le ancelle non ci sono. Stavolta c’è una signora anziana dai modi autoritari che mi dice subito che mi aspettava e che era molto preoccupata per me. Io mi impressiono. Sostiene che ho una bassissima fertilità, colpa dello stile di vita occidentale, troppa carne e alcol e tabacco e poca continenza. Insomma non ho scelta: meglio fare immediatamente un punturone che mi stabilizzerà la fertilità. E poi devo far venire anche mia moglie dall’Australia (ma perché dall’Australia? Sono italiano, replico) perché le possibilità da loro sono molte e se paghiamo avremo la benedizione di un figlio che potrebbe diventare il nuovo Baggio grazie alla tecnologia indiana all’avanguardia che permette intrauterin insemination, invitro fertilization, laser assisted hatching, intracytoplasmic sperm injection e addirittura donor oocyte program. E se poi anche mia moglie avesse problemi, per poche migliaia di rupie in più, piacendo agli dei, mi trovano anche un utero in affitto in una casina poco distante, con giovani ragazze vergini e pudiche dall’utero sano appena arrivate da un villaggio del Gujarat dove la vita è tradizionale e non ci sono malattie come in questa metropoli piena di attricette, ballerine e gangster. Yessir.
Io non mi perdo d’animo: inarco la schiena all’indietro, inspiro, espiro, namasté e posizione del guerriero in fuga. Poi prendo la porta senza salutare ancelle e dee, infilo i piedi nei miei sandali e mi lancio verso il driver che si era appisolato dentro al motorisciò. Lui mi guarda scuotendo la testa, mi dice di non farmi fregare e poi mi passa un biglietto da visita. È suo cugino, il migliore astrologo e curatore tradizionale della città, dice. Guarigione sicura. E al contrario di tanti è pure onesto.
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