Il «marcio» Occidente nella verve di Dostoevskij
Il 13 febbraio del 1865, in veste di caporedattore della rivista «Epocha», Fëdor Dostoevskij scriveva con la consueta irruenza a Ivan Turgenev: «…mi meraviglio che riteniate il Vostro racconto Il cane così insignificante da pensare che pubblicarlo ora significherebbe guastare la Vostra reputazione letteraria. Mi sembra strano, Ivan Sergeevic! Davvero potreste danneggiarvi con un piccolo racconto?! Alzi la mano chi non ne ha mai scritti!»
Il futuro autore di Delitto e castigo non era, in effetti, fra gli indifferenti al fascino della forma breve: quello stesso mese era uscito, proprio su «Epocha», il suo delizioso raccontino umoristico Il coccodrillo Un avvenimento straordinario ovvero impasse nel passage, ora tradotto da Serena Vitale (Piccola Biblioteca Adelphi, pp. 98, € 12,00). Quello che però Dostoevskij non poteva immaginare è che il rischio paventato dal collega – ovvero veder compromessa la propria fama di romanziere «serio» da un lieve divertissement scritto in punta di penna – lo avrebbe riguardato di lì a breve in prima persona.
I critici più malevoli vollero infatti vedere nell’inverosimile vicenda di Ivan Matveic – un bel gagà pietroburghese che finisce nella pancia di un coccodrillo e decide che, in fondo, non ci si sta poi tanto male – una velata allusione al destino del teorico materialista, nonché socialista rivoluzionario, Nikolaj Chernyševskij, spedito proprio allora al confino in quanto criminale di Stato. Secondo l’interpretazione fornita dalla stampa, le budella del coccodrillo da dove, di punto in bianco, Ivan Matveic inizia a filosofeggiare, altro non sarebbero che la Siberia in cui Chernyševskij era stato esiliato. Dettaglio ancor più piccante, nel racconto la moglie del protagonista, la volubile Elena Ivanovna, vede nell’inopinata prigionia del marito un eccellente pretesto per divorziare e darsi alla bella vita; non diversamente si era comportata nella realtà Ol’ga Sokratovna, compagna di Chernyševskij, la quale, a differenza delle consorti dei decabristi quattro decenni prima, si era rifiutata categoricamente di seguire il marito, abbandonandolo così nella cattiva sorte.
Difficile stabilire se Dostoevskij con la sua arguta parabola volesse davvero farsi beffe dell’autore di Che fare?, su cui Vladimir Nabokov infierirà in maniera più che esplicita settant’anni dopo nel suo romanzo Il dono. Né si sa se la disavventura di Matveich, che nell’unica versione pervenutaci sembra lasciata come in sospeso, dovesse avere un seguito: quel che è certo è che una recensione uscita anonima sul giornale «Golos» scongiurava Dostoevskij – che da pochissimo aveva pubblicato Memorie dal sottosuolo – di fermarsi lì e di non rovinarsi la reputazione con una storia talmente «indecorosa», infarcita di «battute di cattivo gusto» e destinata a esser presa di mira «sia dagli amici, che dai nemici». Evidentemente i critici erano rimasti spiazzati dalla grottesca improbabilità di quelle pagine e non avrebbero in alcun modo condiviso il giudizio a venire dello stesso Nabokov che – pur non essendo, notoriamente, un estimatore della scrittura dostoevskiana – le avrebbe tuttavia riconosciuto «lampi di insuperabile umorismo».
Eppure, al di là della verve satirica e di una predilezione tutta gogoliana per l’iperbole (virata però in una tonalità più caustica), nel Coccodrillo affiorano temi posti ripetutamente da Dostoevskij al centro della propria produzione pubblicistica, in primis il disprezzo per il «marcio» Occidente. Nei vetri del passage pietroburghese dove un avido tedesco senza nome mostra per denaro ai curiosi il portentoso coccodrillo Karl, sembra riflettersi il Crystal Palace dell’Esposizione Universale di Londra del 1862 che in Note invernali su impressioni estive assurgeva a terrificante simbolo della massificazione che l’avvento della società industriale aveva portato con sé, nonché della spettacolarizzazione di ogni cosa. Nel Coccodrillo l’irrisione del mito del progresso e del «principio economico» che tutto governa è affidata agli spassosi sproloqui di Timofej Semenyc, l’alto funzionario diretto superiore di Ivan Matveic che, alla fine, acconsente a considerare l’assenza ingiustificata del sottoposto e la sua permanenza nelle interiora del rettile alla stregua di una trasferta all’estero per motivi di studio.
Non meno gustose sono le tirate che il protagonista, novello Giona, propina dalle viscere dell’animale, ripromettendosi nientemeno che di «migliorare le sorti dell’umanità» e di elaborare una «teoria inedita delle relazioni economiche», ora che né impegni lavorativi, né distrazioni mondane lo assillano più.
Con cattiveria altrettanta sfrenata, Dostoevskij, immagina Karl – e Ivan Matveic dentro di lui – al centro del salotto letterario tenuto da Elena Ivanovna, un simposio che, ça va sans dire, terrà testa a quelli più celebri dell’Europa occidentale, poiché dall’interno del coccodrillo «si vede tutto più chiaramente». Al termine del racconto, spacciato dall’autore sul frontespizio per assolutamente «veritiero», l’io narrante resta basito di fronte alle versioni diametralmente opposte che i quotidiani all’indomani dei fatti forniscono del prodigioso inghiottimento: secondo il «Volos», giornale d’orientamento chiaramente occidentalista (e ante litteram animalista), un russo «eccezionalmente grasso» si sarebbe lasciato proditoriamente divorare da Karl, attentando così alla salute della povera bestia, mentre a detta del «Listok», «piccolo giornale di nessuna particolare tendenza», per lo più disprezzato, «benché da tutti letto», sarebbe stato all’inverso Karl ad essere ingoiato da un certo N., «buongustaio dell’alta società», deciso a imitare i gourmand stranieri, già da tempo noti consumatori di coccodrilli, e perfino di manguste.
La maschera dell’umorista retrogrado, indossata con sorprendente disinvoltura, servì dunque a Dostoevskij a sbeffeggiare anche la stampa pietroburghese, un mondo che, dopo aver ereditato alla morte del fratello Michail la direzione della rivista letteraria «Epocha», gli toccò frequentare sempre più spesso.
Alla godibilità della lettura contribuisce anche la traduzione di Vitale che, nell’accostarsi a quella che nella sua postfazione definisce «birichinata letteraria» sembra scegliere una strada leggermente diversa rispetto a quella imboccata da chi ha lavorato di recente su Dostoevskij (anzitutto da Claudia Zonghetti nella nuova versione dei Fratelli Karamazov), ovvero evitare di limare lo stile del romanziere, com’è noto sciatto, goffo e farraginoso. Una strategia per la quale Vitale dichiarava di aver optato in occasione della resa della Mite e che qui sembra cedere il passo a una maggiore scorrevolezza, come se questo Dostoevskij «minore» non andasse ulteriormente sminuito riproducendo ogni suo singolo inciampo o affanno in nome di uno scrupolo filologico che difficilmente il lettore potrebbe apprezzare.
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