Il Mali oltre la linea rossa della guerra
Dopo cinque colpi di stato Militari, imam, jihadisti e confitti etnici in un Paese sempre più allergico alla presenza francese. E a strategie calate dall’alto, sorde al sentire locale, che della violenza vedono solo i sintomi
Dopo cinque colpi di stato Militari, imam, jihadisti e confitti etnici in un Paese sempre più allergico alla presenza francese. E a strategie calate dall’alto, sorde al sentire locale, che della violenza vedono solo i sintomi
Dall’indipendenza coloniale (1960), il Mali ha conosciuto cinque colpi di stato, dato che sottolinea l’influenza delle forze armate (Fama) sul destino di questa repubblica sahelo-sahariana. Eppure non sempre i militari hanno appoggiato regimi dittatoriali: nel 1991 sono intervenuti per deporre Moussa Traoré, al vertice del paese da oltre un ventennio, con l’obiettivo d’inaugurare un’era democratica.
Da allora, gli ufficiali si sono considerati il baluardo contro un sistema deliquescente e disonesto. Nonostante il chiaro contenuto demagogico, i loro discorsi hanno incontrato il favore dei cittadini che hanno avallato i diversi putsch, compresi gli ultimi, nell’agosto 2020 e nel maggio 2021. Entrambi sono stati orchestrati dal col. Assimi Goïta al fine di creare governi di transizione, passibili – ai suoi occhi – di risolvere le questioni sul tavolo: la lotta al radicalismo islamico belligerante, il controllo del territorio, lo sviluppo economico e il buon andamento dell’apparato pubblico (istruzione, viabilità, salute, sicurezza, giustizia).
DUE ALTRI FATTORI caratterizzano la scacchiera maliana: l’elemento tribale e il tema religioso.
Il peso delle componenti etniche non va ricondotto a mere dimensioni folkloristiche. Nelle singole regioni, le etnie convivono in equilibrio precario, tra dissidi e diffidenze verso il potere centrale. Si pensi allo scompiglio del 2012 generato dalla dichiarazione d’indipendenza dell’Azawad da parte dei tuareg, poi fagocitati dai movimenti jihadisti. La crisi ha condotto alla caduta del presidente Amadou Toumani Touré (estromesso dal golpe del capitano Amadou Sanogo) e all’appello per un intervento militare francese (operazione Serval, 2013).
Sottolineiamo che molte comunità, non solo tuareg, si sentono escluse dalla politica nazionale, tanto da denunciare la presunta supremazia a loro discapito dei bambara, la stirpe che rappresenta circa un terzo della popolazione ed è installata nelle aree prossime alla capitale.
UN ESEMPIO È OFFERTO dalla reazione del popolo dogon, che risiede a centinaia di kilometri a est di Bamako, in occasione di un recente episodio. Il 3 dicembre 2021, estremisti combattenti in nome della fede hanno attaccato l’autobus che trasporta settimanalmente i contadini di Songho al mercato del capoluogo Bandiagara. L’aggressione è sconvolgente: dopo aver bloccato il mezzo, gli assalitori hanno sparato raffiche di mitra e incendiato il veicolo coi passeggeri bloccati dentro, provocando la morte di 31 persone e il ferimento di 17. Come ci ha narrato un nostro informatore del luogo, la gente ha risposto al gesto accusando le autorità della capitale sia d’indifferenza nei confronti degli assalti e dei rapimenti a ripetizione, sia di non imporre all’esercito il pattugliamento delle strade per prevenire atti del genere.
PERSINO LA VISITA del governatore di Bandiagara al borgo in lutto ha sollevato proteste; il capo-villaggio ha rifiutato il denaro portato dal dirigente regionale, sostenendo che gli abitanti desideravano protezione, non un’umiliante propina o un discorso commemorativo in lingua bambara! Le associazioni dogon hanno quindi lanciato un appello alla disobbedienza civile, ampiamente seguito, sino a che una delegazione interministeriale si è recata a Bandiagara, per ascoltare le rivendicazioni della gente.
Della sfiducia nello stato testimonia poi la creazione di milizie autogestite (chasseurs dogon) per presidiare il territorio e permettere agli agricoltori di recarsi nei campi. Ma il risultato rimane scarso: le terre sono incolte, le proprietà bruciate, le scuole chiuse (i maestri fuggono davanti alle intimidazioni delle bande armate che riconoscono, quale unico ambito d’istruzione, le kuttab o scuole coraniche).
Non basta. La dinamica attuale esaspera i contrasti intercomunitari e si riaccendono i dissapori fra contadini dogon e pastori seminomadi peul, ai quali è talvolta negato il diritto di passaggio o di accesso ai pozzi. Considerati potenziali alleati del jihadismo, in veste di tradizionali propagatori dell’islam nel Sahel, i peul sono oggetto di ostracismo e i loro ragazzi, privi di prospettive, finiscono per lasciarsi incantare dalla propaganda e si arruolano nelle fila della Katiba Macina di Amadou Kouffa, affiliata al Gsim (Groupe de soutien à l’islam et aux musulmans).
INSOMMA, IL FATTORE ETNICO si fonde con quello religioso. Paese al 90% sunnita, il Mali ha, dal 1992, una costituzione laica ma l’intromissione delle grandi guide spirituali è enorme. La rinegoziazione della laicità assume un duplice volto. Da un lato, ha la forma di un controllo larvale del governo (dotatosi nel 2012 di un ministero degli Affari religiosi e del Culto) sulle moschee: la guerra contro il radicalismo combattente sembra, infatti, giustificare la sorveglianza dei possibili punti di reclutamento. Dall’altro, l’ingerenza delle istituzioni musulmane, fra cui l’Haut Conseil Islamique Malien (Hcim), esula da problematiche legate al credo, alla morale o ai costumi. Lo dimostra il percorso dell’imam wahabita Mohamed Dicko, a capo del Hcim sino al 2019. Il suo nome è stato acclamato durante le manifestazioni del 2020 contro il neo-rieletto presidente Ibrahim Boubacar Keïta, in seguito deposto. Oggi, la coalizione del M5-rfp (Mouvement 5 juin – Rassemblement des forces patriotiques) – alle prese con la giunta di Assimi Goïta – non può esimersi dal cercare il beneplacito dell’imam e ne paventa le mire alle elezioni che dovrebbero (in teoria) tenersi tra febbraio e marzo 2022.
FRA I PRIMI, MOHAMED DICKO ha criticato la presenza francese (che presto muterà volto per fondersi con la missione internazionale Takuba) e ha ventilato il bisogno di negoziare con frange del radicalismo islamico, per migliorare la sorte dei villaggi sottoposti ai blocus djihadistes. Ciò in opposizione alla linea rossa tracciata da Parigi, impegnata dal 2014 con l’operazione Barkhane (5.100 soldati dispiegati), la quale considera improponibile ogni compromesso coi terroristi che andrebbe a discapito dei diritti umani.
Spiegano gli studiosi B. Haïdara e S.A. Traoré, citando il caso del borgo di Dinangourou, vittima per quattro mesi di un assedio: «Gli abitanti non hanno potuto contare né su Barkhane, né sull’esercito maliano, che si sono accontentati di sganciare viveri. Quanti hanno sfidato l’accerchiamento per recarsi nei campi sono stati uccisi. Invece, l’accordo concluso (…) con la mediazione dell’Hcim si è rivelato la soluzione per giungere a una pace relativa e permettere ai contadini di tornare al lavoro».
I DUE POLITOLOGI mettono qui l’accento sul fallimento di una logica occidentale anti-islamista «tutta giocata sulla dimensione militare» e sulla «potenza fittizia» di un esercito nazionale minato dalla corruzione (Le Point Afrique, 25-8-2021).
Il pericolo, conclude Alain Antil dell’Institut français des relations internationales, rimane quello di «trattare i sintomi senza intervenire sulle cause profonde delle violenze» (in Ramses 2022), si ignorano, cioè, la realtà e il sentire locali a vantaggio di strategie calate dall’alto.
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