Il 5 maggio 1936, dopo 7 mesi di guerra il maresciallo Pietro Badoglio telegrafava a Roma l’ingresso delle truppe del regio esercito ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia.

Il 9 maggio Mussolini dal balcone di Piazza Venezia annunciava trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma». Nel suo viaggio nella ex-colonia la storia segue come un’ombra lunga Giorgia Meloni, prima Presidente del Consiglio postfascista e figlia politica del Msi, il partito erede della parabola mussoliniana.

In realtà i conti mai fatti con quella storia non sono esclusiva dell’estrema destra ma chiamano in causa la società italiana nel suo complesso. Ancora oggi strade, piazze e monumenti in tutto il Paese sono intitolate e dedicate alla guerra imperialista del fascismo senza che nessun governo e nessuna istituzione abbia pensato di intervenire almeno per spiegare cosa significhino storicamente via dell’Amba Aradam o via Addis Abeba piuttosto che Largo Ascianghi.

Che il passato coloniale sia stato un enorme rimosso della nostra Repubblica, transitata dal fascismo alla democrazia senza un suo simbolico processo di Norimberga ed anzi auto-rappresentatasi con il falso mito degli «italiani brava gente», lo mostrò l’incredibile ostracismo di stampa e mass-media contro il più grande (nonché partigiano) storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca. Memorabile la sua polemica con Indro Montanelli (che negò fino all’inverosimile in nome della sua «memoria personale» al seguito delle truppe di occupazione) sull’uso delle bombe all’iprite e dei gas asfissianti da parte del regio esercito la cui aviazione nella sola «battaglia dello Scirè» del febbraio-marzo 1936 sganciò 200 tonnellate di esplosivo.

Crimini di guerra confermati dai documenti e che non rimasero episodi isolati. Dopo l’occupazione di Addis Abeba stragi di civili e partigiani continuarono senza sosta tanto che l’ufficio militare del ministero dell’Africa Italiana al 10 giugno 1940 registrò: 76.906 ribelli etiopi uccisi, 4.437 feriti e 2.847 prigionieri.

Quella storia parla molto non solo del regime fascista ma anche dell’Italia del dopoguerra e di come la «continuità dello Stato», come ci ha insegnato Claudio Pavone, influenzò lo sviluppo storico della democrazia nel nostro Paese.

Le operazioni di polizia erano coordinate da Rodolfo Graziani, gerarca fascista nominato vicerè d’Etiopia, criminale di guerra e ministro delle Forze Armate dell’esercito collaborazionista di Salò. Nel dopoguerra sarà processato e rapidamente scarcerato, diventando presidente onorario del Msi nel 1952. Diverrà celebre il suo «abbraccio» pacificatorio ad Arcinazzo con Giulio Andreotti durante un comizio elettorale dell’esponente democristiano. Nel 2012 nella cittadina di Affile è stato inaugurato in suo onore un mausoleo finanziato dall’allora giunta regionale del Lazio guidata da Renata Polverini e di cui faceva parte l’allora assessore ai trasporti Francesco Lollobrigida, oggi fedele colonnello del governo Meloni.

A seguito di un attacco contro Graziani ad opera della Resistenza etiope, il 19 febbraio 1937, i comandi italiani ordinarono uno sterminio di massa (14.294 ribelli uccisi e passati per le armi e 50.000 case incendiate) culminato con la strage dei monaci coopti di Debrà Libanòs ed eseguito da reparti guidati da Pietro Maletti. Decenni dopo ritroveremo suo figlio Gianadelio Maletti, che seguì le orme paterne nella carriera militare, condannato per favoreggiamento nell’ambito dell’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

L’Etiopia potrebbe raccontare a Giorgia Meloni la storia di un altro dei suoi padri fondatori del Msi: Alessandro Lessona, posto da Mussolini alla guida del ministero per l’Africa Orientale Italiana. Nel dopoguerra superata indenne la fase dell’epurazione sarà membro e poi senatore del Msi nel 1963. Nell’aprile 1969 si dimise dal partito e aderì al Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese (altro Presidente onorario del Msi) poco prima del tentativo di golpe del 7-8 dicembre 1970.

Così, mentre evoca un chimerico «Piano Mattei» per l’Africa, Meloni potrebbe cogliere l’occasione per ripensare a quei padri fondatori e a «quelle persone che non ci sono più» cui dedicò la vittoria elettorale del settembre scorso. Continuerà invece (e con lei l’opinione pubblica nazionale) a non farlo, forte del disinteresse del Paese alla conoscenza del proprio passato e confidando nel nostro mesto spirito dei tempi che richiama il celebre aforisma di Karl Kraus: «Quando il sole della cultura è basso i nani hanno l’aspetto dei giganti».