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Il M5S è il terzo partito. Conte mette in crisi il Pd

Il M5S è il terzo partito. Conte mette in crisi il Pd

Voto Suspense per il calo dell’affluenza al Sud, ma il nuovo corso dell’ex presidente del consiglio tiene: «La destra vince per colpa di Letta»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 26 settembre 2022

In via di Campo Marzio, nella sede che Giuseppe Conte ha voluto alle spalle di Montecitorio per segnare il cambio di passo del suo Movimento 5 Stelle, circola prudenza. Troppo vaghi i dati degli exit poll, che danno i pentastellati intorno al 17%. Qualcuno a porte chiuse esulta, ma c’è una variabile che fa saltare tutti i calcoli più ottimistici delle previsioni della vigilia: il calo dell’affluenza in molte regioni del sud. soprattutto la Campania che era considerata un po’ lo swing state del duello tra M5s e Pd. E che è la regione che tutti i leader hanno battuto fino all’ultimo per strappare ogni voto. «Lì i nubifragi hanno segnato le elezioni», dicono i collaboratori più stretti di Conte senza nascondere la preoccupazione. La stessa che circola dal pomeriggio nelle chat interne dopo giornate in cui l’entusiasmo aveva fatto sperare addirittura nel sorpasso sul Partito democratico.

IL CHE PERÒ non deve far sottovalutare la prestazione di una forza politica che fino a poche settimane fa era data se non in lotta per la sopravvivenza, alla caccia disperata del risultato a doppia cifra. Questo è il succo del ragionamento che propone a boccia calda Michele Gubitosa, uno dei cinque vice di Conte. Quella soglia è ampiamente raggiunta e adesso si tratta di gestire il gruzzolo di consensi nella prospettiva dell’opposizione al governo delle destre. Tra i primi a parlare l’altro vice, Riccardo Ricciardi, che era tra quelli che hanno spinto di più per la rottura con Mario Draghi. Adesso scarica le colpe della vittoria delle destre sugli ex alleati del Partito democratico «Il Pd ha la responsabilità politica della vittoria del centrodestra – osserva Ricciardi – Ha chiuso la porta al M5s, ha portato avanti una pessima gestione della fase delle alleanze. Letta deve fare mea culpa. Con il M5s ha chiuso ogni possibilità di portare avanti una alleanza». E se a urne chiuse dal Nazareno, per bocca dell’eterno tessitore Francesco Boccia, provano a ricucire i rapporti all’insegna della «nuova fase» che sta per cominciare, tra i 5 Stelle considerano senza troppe concessioni che ogni relazione dovrà essere ponderata in base ai rapporti di forza usciti dalle urne.

CONTE, CHE si è preso il M5s sulle spalle mutando natura da uomo delle istituzioni a trascinatore di piazze, arriva al comitato elettorale più o meno insieme a Roberto Fico ben oltre la mezzanotte. Lascia per buona parte della serata le luci della ribalta ai suoi colonnelli, che gli hanno fatto da scudo nei giorni difficili del Quirinale e della crisi di governo e poi lo hanno supportato quando è partita la resa dei conti interna con i fedelissimi di Di Maio. «Raccontare al paese dell’agenda Draghi significa che poi il paese non ti segue – dice ancora Ricciardi – Queste sono state le scelte del Pd che purtroppo pagheranno gli italiani».

MENTRE la partenopea Mariolina Castellone, la capogruppo al Senato che probabilmente verrà confermata anche in questa legislatura, riflette sulla distribuzione dei consensi al Meridione: «Sarà chiara la distribuzione diversa del voto tra nord e sud. Noi in Campania siamo altissimi, dai dati che ci stanno arrivando dai rappresentanti di lista». Con una punta di malizia si guarda al collegio uninominale di Fuorigrotta, dove è candidato l’ex capo politico Luigi Di Maio, passato armi e bagagli con il centrosinistra dopo la scissione che ha dato di fatto il via alla crisi del governo Draghi.

LA MANCATA affermazione delle due liste nate da pezzi in libera uscita dal M5S, Italexit e Impegno Civico, rivela la difficoltà di traslocare i voti grillini in altri contenitori e con altri portavoce. Ma a taccuini chiusi in molti nel quartier generale dei 5 Stelle osservano che quelle due operazioni hanno espunto dal recinto pentastellato le anime moderate (passate con Di Maio) e quelle sovraniste e anti-euro (ammaliate dalla destra gentista di Gianluigi Paragone). A questo punto il M5S ha il compito di approfondire la sua agenda progressista, in opposizione a quella del governo e in alternativa a quella delle altre forze di opposizione. «Il Partito democratico? – dice un collaboratore di Conte tra una proiezione e l’altra- A questo punto prima di capire come vogliono relazionarsi con noi dovranno decidere che direzione prendere e quali dirigenti avere». Il riferimento è alla battuta di Conte, che in campagna elettorale aveva chiuso ad ogni dialogo con i dem, se al timone fosse rimasto Letta.

ROCCO CASALINO, gran cerimoniere della comunicazione, suggerisce ai cronisti: «A quanto stiamo se sommiamo i nostri numeri con quelli del Pd? Avremmo tenuto testa al centrodestra…». Ma quello che propone è un esercizio di pura accademia: tutti nel M5s sanno che senza la rottura con il Pd Conte avrebbe avuto molto meno spazio di manovra. Sta tutta qui, nel gioco tattico tra alleanze con il centrosinistra e autonomia di movimento, la storia da scrivere dei 5 Stelle nella legislatura che sta per cominciare.

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