Giorgia Meloni ha vinto. Ha formato la sua squadra in tempi fulminei, ha sconfitto nelle sfide sui singoli ministeri sia Matteo Salvini per gli Interni che Silvio Berlusconi per la Giustizia e sul caso Ronzulli, ha impostato un modus operandi che la rende più simile al capo di un governo presidenziale che a una presidente del consiglio.

Ma è una vittoria fragile, una rosa piena di spine. Per chiudere la sua squadra nei tempi record che si era prefissa la prima premier donna nella storia d’Italia ha dovuto fare il contrario di quel che aveva progettato all’inizio: ha saccheggiato il Senato, rinunciando alla folta pattuglia tecnica che vagheggiava. Nelle commissioni di palazzo Madama il guaio potrebbe rivelarsi grosso. Ha seminato malumori che oggi devono essere tenuti a freno perché i rapporti di forza non permettono altro ma covano sotto pelle.

Il problema principale è dipinto in azzurro. Le dimensioni ciclopiche del guaio Forza Italia sono state plasticamente messe in scena dalla grottesca pochade dei nomi dei ministri invertiti, come da spudorato comunicato tricolore, «a causa di un errore di trascrizione». Gilberto Pichetto Fratin è ministro dell’Energia non della Pubblica amministrazione come declamato dal Colle, e viceversa Paolo Zangrillo è alla Pa. Tante scuse a tutti e peccato per la figura spiacevole del medesimo Pichetto che si era già detto «onorato di aver ricevuto il mandato per la Pubblica amministrazione».

Quando l’errore è stato notificato era già noto che all’ultimo momento, e non per intervento del capo dello Stato, la premier aveva apportato un paio di modifiche alla lista, di quelle sgradite agli alleati. Probabile che si sia trattato proprio di quell’inversione di ministeri, forse giustificata dall’esigenza di dare un contentino a Berlusconi assegnando a Zangrillo il ministero più importante, destinata a rinfocolare la tensione interna a una Forza Italia dilaniata da una guerra civile sempre meno latente. A correggere l’errore sarebbe stato lo stesso Zangrillo, con una telefonata a Berlusconi nella quale avrebbe chiesto il ritorno alla ripartizione originaria, non essendo competente in materia d’ambiente.

Fa parte delle modifiche dell’ultima ora anche la cancellazione in extremis del ministero destinato ai centristi, con Maurizio Lupi ai Rapporti con il Parlamento sostituito dal fedelissimo Luca Ciriani, che lascia così la presidenza del gruppo FdI al Senato e si può immaginare come la hanno presa i centristi.

Neppure Salvini è davvero soddisfatto, nonostante il cospicuo bottino. Alle sue Infrastrutture sono stati all’ultimo momento scippati i porti, finiti in mano a Musumeci ministro del Sud e delle Politiche del mare. Salvini, imbufalito, chiarisce subito che «le deleghe di Musumeci non assorbiranno nessuna delle deleghe attualmente in capo al Ministero delle Infrastrutture». Però immaginare un ministero delle Politiche del mare che non si occupa di porti è un tantinello strano.

Ma il grande sconfitto resta Berlusconi. Non ha ottenuto nulla di quel che voleva: Giustizia, Sviluppo, ministero per Ronzulli. La premier ha già chiarito non avrà neppure la delega all’Editoria. Il Cavaliere fa buon viso a cattivo gioco ma non perdonerà un comportamento che considera come imperdonabile delitto di lesa maestà.

Prima o poi cercherà di rifarsi e vendicarsi. Consapevole di questa debolezza Giorgia Meloni ha scelto di spostare all’interno del governo tutti i fedelissimi, inclusi i capigruppo Ciriani e Lollobrigida, in modo da blindare il suo comando nell’esecutivo. È rimasto fuori a sorpresa solo il vero alter ego, Giovanbattista Fazzolari, che potrebbe sì rientrare come segretario generale di palazzo Chigi oppure con una delega pesante come quella ai servizi, ma al prezzo di sguarnire ulteriormente un Senato già ridotto all’osso con 9 senatori al governo, Ignazio La Russa fuori gioco e Berlusconi sulla cui presenza non si può contare.

Al posto di Fazzolari è rientrato in gioco, dopo oltre 10 anni di distanza dalla politica, l’ex An Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del consiglio. Sul piano della capacità e dell’efficienza è un acquisto prezioso. Ma è anche l’esponente più vicino all’integralismo cattolico lefebvriano che ci fosse nella vecchia Alleanza nazionale, in un governo che quanto a integralismo cattolico già sovrabbondava.