Il long Covid delle diseguaglianze in istituzioni chiuse
La pandemia è finita? Oppure no? A giudicare dalla latitanza dell’informazione istituzionale, il Covid sembra ormai alle spalle. In questa direzione può essere letta la quasi totale eliminazione dell’obbligo di mascherine e il rilancio alla grande dei raduni di massa (concerti, eventi sportivi, etc.). Anche i rari commenti sull’aumento dei contagi per la nuova variante Omicron 5 tendono all’ottimismo, sottolineando come non ci sia una pressione sugli ospedali e le terapie intensive.
Permangono però le norme rigorose di isolamento per i positivi, con relativa necessità di documentare la ritrovata negatività al coronavirus per tornare a uscire. Sarebbe auspicabile che le istituzioni sanitarie spiegassero la ratio di questa contraddizione, fra la scarsa o nulla preoccupazione per la trasmissione del virus negli scambi sociali e il persistere di eccezionali misure di isolamento per i positivi.
Ma ora mi interessa segnalare altro: il persistere dell’isolamento per i positivi, se può essere gestibile con limitato disagio da parte dei «normali» cittadini, diventa fonte di disagio estremo e sofferenza per particolari gruppi di cittadini, come i detenuti e le detenute. Lo ha denunciato il coordinamento dei garanti regionali dei detenuti, come anche il Garante Nazionale delle persone private della libertà.
Nell’istituzione chiusa, governare i contagi significa trovare spazi dove tenere le persone positive e ridurre, se non eliminare, tutte le occasioni di contatto con i non contagiati.
In pratica, ai detenuti saranno vietate le visite dei familiari e saranno sospese tutte le attività (di lavoro, di studio etc.) gestite dai volontari. Di più. Se l’uscita per il “passeggio” viene sospesa, si rischia di rimanere in cella ventiquattro ore su ventiquattro; per di più d’estate, stagione sempre difficile per chi è carcerato. E magari col blindo chiuso: mi riferisco a una direttiva reale, impartita dall’azienda sanitaria competente in un penitenziario del Nord Italia.
Ce n’è abbastanza per una riflessione di carattere etico. Ancora una volta, si dimostra che la pandemia aumenta le diseguaglianze e che le politiche pubbliche non perseguono l’obiettivo di porvi rimedio, o almeno di mitigare tali diseguaglianze. Il Servizio Sanitario Nazionale (preposto alla salute in carcere) sembra gestire la pandemia secondo il classico e burocratico principio di “eguaglianza fra diseguali”, senza preoccuparsi del particolare impatto psicologico dell’isolamento pandemico su chi l’isolamento dalla società già lo vive come pena. Né tantomeno ci si preoccupa dei riflessi che l’aumento dei contagi può avere nella vita di alcuni gruppi cosiddetti “vulnerabili”, ben oltre il problema della pressione sugli ospedali.
Ho detto dei detenuti, altrettanto si può dire degli anziani e anziane nelle Residenze Assistite-Rsa. In molte di queste, vige ancora la limitazione delle visite dei familiari. E molti ospiti continuano a morire in solitudine. Le denunce per i danni alla salute, psicologica e non solo, della protratta limitazione dei contatti con l’esterno per gli assistiti nelle Rsa non hanno turbato più di tanto la coscienza pubblica; né tantomeno hanno risvegliato un particolare impegno istituzionale.
Detenuti e anziani (specie i non autosufficienti) sono accomunati dalla totale dipendenza, senza alcuna libertà di gestione della propria salute. Il che dovrebbe esaltare la responsabilità dell’istituzione che li governa, naturalmente: che consiste soprattutto nell’ascoltare le persone che da loro dipendono, sforzandosi di tenere presente il loro punto di vista; cercando di restituire ai «vulnerabili» l’autonomia perduta; per gli anziani, cercando di salvaguardare gli spazi di libertà restanti. Succede però il contrario: si esercita il massimo dell’imperio su chi, per la sua fragilità, non ha voce per farsi sentire. E si limita ancora di più la libertà a coloro che più l’hanno cara.
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