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Il grande gioco: ecco come iniziò

Il grande gioco: ecco come iniziòNelle immagini il dottor Brydon, l’uomo che si credeva l’unico superstite della guerra, protagonista del celebre dipinto vittoriano «Remnants of an Army» di Elizabeth Butler

Afghanistan In queste ore, nel 1838, Londra e Calcutta decidono di reinsediare a Kabul un re afgano spodestato anni prima. Per controllare il Paese e contenere la Russia. Finendo per uscirne con le ossa rotte

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 1 ottobre 2016

Il 30 settembre 1838 Lord Auckland, governatore generale delle Indie, promulga il «Manifesto di Simla» con cui la Gran Bretagna decide ufficialmente di spodestare il re dell’Afghanistan, che teme alleato dei russi, per sostituirlo con un altro monarca che rientra nelle sue simpatie. È il punto di partenza della più tragica sconfitta subita dagli inglesi nel Paese dell’Hindukush. Una lezione che, ripetutasi con i sovietici negli anni Ottanta, sembra ricordare in parte anche quanto succede adesso in quel lontano Paese. È il vero inizio guerreggiato del Great Game, il grande gioco tra l’Impero zarista e quello britannico per la conquista dell’Asia centrale.

UN GIOCO MAI FINITO anche se gli attori sono in parte cambiati.Auckland, anche se è soltanto un governatore generale e la «Perla dell’Impero» è ancora amministrata dalla Compagnia delle Indie – un’impresa commerciale con diplomatici, amministratori, mercanti, tribunali e soldati – rappresenta di fatto la Corona. Che col Manifesto dichiara in sostanza guerra all’Afghanistan, allora come oggi un turbolento Paese ma fondamentale crocevia nel cuore dell’Asia. E annuncia l’intenzione di reinsediare sul trono, al momento occupato dal Khan Dost Mohammad, il re Shah Shuja. I britannici temevano le mire sull’Afghanistan dei persiani e soprattutto dei russi e Dost Mohammad – un pashtun Barakzai – prestava troppo orecchio alle blandizie e alle offerte degli emissari dello Zar e stava pensando di rimpossessarsi di Peshawar, caduta nella mani di Ranjit Singh, potente sovrano sikh che godeva delle simpatie inglesi. Shah Shuja – esule in India – era un sovrano Sadozai cacciato da beghe di palazzo afgane e come tale sufficientemente disponibile ad accettare l’aiuto degli inglesi per tornare sul trono. A Shah Shuja, gli inglesi avevano trovato un posto a Ludhiana, nel Punjab, dove viveva un esilio dorato sognando Kabul.

AUCKLAND HA MEDIATO tra i fautori del ritorno di Shah Shuja e quelli che sconsigliano l’avventura. Tra coloro che temono che la campagna afgana non sarà facile e chi la ritene una passeggiata. Tra questi c’è sir William Macnaghten, ascoltato consigliere politico. Ma l’idea piace anche all’artefice della politica estera britannica, il Visconte Palmerston. Quanto a quelli che in teoria son contrari o perplessi, vengono convinti dall’ambizione: è il caso dello stesso Auckland e di Alexander Burnes, che aveva ottimi rapporti col Khan, ma che per l’occasione era stato promosso e nominato baronetto. Macnaghten e Burnes furono dunque inviati a Kabul come rappresentanti britannici alla nuova corte di Shah Shuja e alla testa di un potente esercito. L’operazione comincia da Sud con destinazione Kandahar.

AL COMANDO DI BURNES la forza d’occupazione varca il passo di Bolan nel Sind nella primavera del 1839 e il 25 aprile Shah Shuja, accompagnato da Macnaghten, entra in città senza colpo ferire. Poi è la volta di Ghazni, più a Nord sulla strada per la capitale. Ma se l’avanzata militare va bene, i vertici britannici si rendono conto che attraversare l’Afghanistan è tutt’altro che una passeggiata e anche che Shah Shuja non sembra avere il consenso sperato. Si guardano bene dal comunicarlo a Calcutta e a Londra. Il dado è tratto
La perdita di Ghazni obbliga Dost Mohammad a fuggire. O meglio a temporeggiare per trovare un altro modo di organizzare la resistenza contro un esercito disciplinato e bene armato contro cui in campo aperto avrebbe perso. A luglio il nuovo re riprende possesso della sua capitale che non vede da trent’anni. Scrive Jhon William Kaye, autore nel 1874 di una Storia della guerra in Afghanistan: «Il tintinnio delle borse di monete e il luccichio delle baionette inglesi gli avevano restituito il trono, ma ad accoglierlo c’era quello che sembrava più un corteo funebre che non l’ingresso di un re nella capitale dei suoi restaurati domini».

Il piano iniziale di Macnaghten dunque va rivisto. Insediare Shah Shuja non basta e bisogna presidiare la città e dunque restare. L’invasione si trasforma in occupazione. Nonostante diversi segnali che i consiglieri di Shah Shuja e i più accorti tra gli inglesi o tra le loro guide indiane avevano fatto presente ai capi, il comando britannico sembra ignorare la realtà. Macnaghten sta già pensando al suo prossimo incarico – il governatorato di Bombay – e Burnes se la spassa senza far gran attenzione al fatto che in Afghanistan toccare una donna locale non è uno scherzo che si dimentica.

LA PICCOLA COMUNITÀ dei civili al seguito, cresciuta con l’arrivo di mogli, figli e servitù, segue le partite di cricket e sorseggia tè compiacendosi del clima fresco di Kabul dove il caldo può essere feroce in estate ma è sempre secco e spesso mitigato dalle brezze. Non è solo la vita di quegli expat, come oggi li chiameremmo, a dare scandalo: i soldati al comando del generale Elphinstone, un militare già anziano e senza la benché minima idea di quel si va preparando, si erano distinti in azioni punitive contro le tribù circostanti. Gli accantonamenti inglesi anziché essere vicini alla fortezza di Bala Hissar, sede del re, erano isolati e periferici rispetto al centro città. Un mondo a parte che stava per essere travolto.

Gli inglesi non capiscono che il figlio di Dost Mohammad, il principe Mohammad Akbar Khan, sta preparando la contromossa. Solo qualcuno se ne rende conto: “L’animosità verso di noi aumenta di giorno in giorno e i loro mullah predicano contro di noi da un capo all’altro del Paese” scrive il maggiore Henry Rawlinson. Ma è una voce nel deserto. Il 1 novembre del 1941 parte il primo attacco che ha per obiettivo la casa di Burnes. L’uomo è praticamente solo perché le truppe, che tra l’altro esitano a muoversi, sono a quattro chilometri da casa sua che presto vien data alle fiamme. Burnes viene ucciso dalla folla inferocita. Mentre la rivolta si estende Macnaghten e Elphinstone perdono tempo prezioso in lunghe discussioni: agire? Punire? Trattare? Decidono di prepararsi a un possibile assedio nel mezzo del quale tenteranno qualche disastrosa sortita.

Sotto il comando del principe, diventato poi il simbolo dell’indipendenza afgana, le truppe disomogenee delle tribù hanno mutato il tipico individualismo tribale in un jihad collettivo contro l’invasore. Col consenso di una popolazione che non solo odia gli stranieri, ma li accusa di aver fatto aumentare i prezzi al bazar. Akbar è ormai il dominus della situazione. In dicembre Macnaghten accetta di incontrarlo su una collina poco lontano dal fiume Kabul. Ma è una trappola. Il principe ha saputo che gli inglesi hanno pagato alcuni capi tribù per corromperli e li ripagano della stessa moneta. Nella notte il cadavere di Macnaghten, mutilato di testa, braccia e gambe, penzola a un palo del bazar.

LA PARTITA È PERSA e Elphinstone negozia un salvacondotto e una scorta per far rientro in India attraverso il Kyber Pass, la gola che porta dall’Hindukush alle pianure del Gange. Elphinstone sa che se raggiunge Jalalabad, ai piedi del passo, è salvo. Ma la sua disgraziata missione non ha futuro. Akabar è d’accordo con le tribù che aspettano gli inglesi al varco. La scorta promessa non arriva e un inverno impietoso aggiunge brace al fuoco che sta per divampare. La ritirata si rivela un disastro con assalti e agguati, mentre la penuria di cibo e i geloni falciano i civili aggregati alla truppa. Dopo l’ultima strage a Gandamak, quando ormai la meta sembra vicina, dell’armata inglese non resta quasi più nulla o così almeno sembra perché il 13 gennaio, dei sedicimila partiti da Kabul una settimana prima, arriva a Jalalabad un solo uomo: ferito e stremato che si trascina sul suo cavallo. È un medico, il dottor Brydon, il protagonista di uno dei più celebri ritratti di epoca vittoriana: Remnants of an Army di Elizabeth Butler.

La prima guerra afgana, cominciata nel 1839 e finita nel 1942 si conclude con un bilancio pesantissimo. Oltre a Brydon si è salvato solo qualche inglese fatto prigioniero. Freddo, fame, sciabolate e malattie hanno aiutato gli afgani a espellere l’invasore. Umiliandolo. Alla fine di marzo anche Shah Shuja – tradito – viene assassinato. Chiude la vicenda la morte di un re di comodo che aveva fatto ritorno a casa sulla punta delle lance inglesi e che gli inglesi alla fine avevano abbandonato al suo destino.

*Il racconto si può ascoltare in podcast su Radio Rai 3

RISORSE

Il grande classico sul Great Game è «Il Grande Gioco» di Peter Hopkirk in cui l’autore mescola fatti e documenti a una grande capacità narrativa in oltre 600 pagine che compongono il puzzle di quello che i russi chiamavano invece «Torneo delle ombre».

Operazione ripetuta poi con «Diavoli stranieri sulla Via della Seta» (entrambi di Adelphi), storia di avventurosi scopritori di quelle antiche civiltà. Il Grande Gioco lo racconta anche Karl Meyer ne «La polvere dell’impero», uscito qualche anno fa per Corbaccio, mentre Antony Wynn sceglie invece di dilungarsi su un frammento di quella storia («La Persia nel Grande Gioco», Il Saggiatore) come fa William Dalrymple, che nel suo recente «Il ritorno di un re» (Adelphi) si concentra proprio su Shah Shuja. Ma Dalrymple lo fa con una marcia in più e cioè utilizzando moltissime fonti locali: afgane, indiane, persiane e lo stesso diario di Shah Shuja.

Gli effetti di un Grande Gioco trascinatosi sino ai giorni nostri si possono invece leggere in «Samarcanda. Storie di una città dal 1945 a oggi» (Cliopoli), un libro fresco di stampa di Marco Buttino. Italiano è anche l’autore de «Il cammello battriano» (Neri Pozza), piacevolissimo racconto di Stefano Maltesta su una riscoperta tra gli echi del Great Game e della Via della seta. 

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