Tempo fa Galli della Loggia sdoganò l’idea che le persone con disabilità potessero stare in classi separate, motivando che sarebbero state seguite meglio, e che i normotipici non sarebbero stati condizionati dagli altri.

Pensai a lungo se rispondere: avrei potuto come parte in causa, come cittadina, come persona attenta alle questioni di inclusione sociale. Ma la verità è che ero ferita. E poiché quando scrivo ho molto rispetto per la pagina che mi ospita e i suoi lettori, io cerco sempre di applicare un principio induttivo: ovvero mi uso come parte senziente per arrivare a una frase, un concetto, un principio che si dimentichi di me, e che valga non dico per tutti, ma per una buona parte degli altri. Poi amo molto la politica e la politica è fare questo: un ragionamento per la città, per il paese, eccetera. Ma la verità è che ero ferita a morte.

Ci ho scritto un romanzo su una famiglia con un ragazzino disabile, una dozzina di anni fa. Affidare al romanzo il terrore della vita è più giusto che affidarlo al ragionamento che dovrebbe essere sotteso alla stesura di un articolo. Lì vai via in mille modi. In quel romanzo però c’è una cosa per cui Clara Sereni mi disse: «La fine è troppo rassicurante».

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Il punto su cui finiva e si addolcivano le fatiche era la scuola pubblica. La nostra esperienza di scuola pubblica a tempo pieno del quartiere periferico di Napoli in cui viviamo: una scuola che fa comunità attorno a sé e che ci ha insegnato a vivere, a combattere, a non avere paura. Intendo tutto il percorso scolastico, perché dalle elementari, le medie e poi da lì, con una facilità che avevo dimenticato vivendo al Sud, anche il liceo.

Quando io scrissi il romanzo era una speranza, ma adesso dopo tanti tanti anni so che è stato vero. Hanno perduto qualcosa i ragazzini normotipici che hanno fatto lo stesso percorso scolastico nelle stesse aule con gli stessi programmi? Non lo so. So che si sono fotocopiati il libro bes di filosofia perché era più immediato di quello curricolare, so che ogni tanto si mettono attorno a un tavolo e fanno una lezione comune di matematica in cui è il discente con disabilità che spiega ai suoi compagni le regole, perché le memorizza più facilmente, e poi so che quei compagni lo aiutano ad attraversare la strada prospiciente la scuola, perché sempre a Napoli stiamo.

Quando l’altro giorno Vannacci se n’è uscito con più o meno gli stessi concetti, brandendoli come l’osso dello scimpanzé di 2001 Odissea nello Spazio, qualche minuto prima però di capire cosa farne, nel frame precedente, diciamo, tutti lo hanno attaccato, deriso, compianto quasi: si sono dissociati. Io ne ho ravvisato il rischio linguistico, ho pensato: attenzione perché ovviamente la Costituzione questa cosa qui non la vuole e la consuetudine e il buon senso e la civiltà non la vogliono, ma dirla ad alta voce è già spostare qualche metro più in là il confine di quello che si può dire. E infatti, nella denigrazione generale, poi sono arrivati piccoli commenti, corollari a quella frase. Insomma invece di partire dalla legge quadro 104 del 1992 si è potuto ripartire dallo scimpanzé, e così tutti a discutere sull’osso: che ce ne facciamo di quest’osso? Come è fatto quest’osso? Quante ossa ci sono? eccetera.

Ma io neppure lì ho scritto, e per lo stesso motivo: ero ferita a morte. Di più? Di meno se lo fa Galli Della Loggia o Vannacci? Uguale. Ero ferita uguale. Poi, a sera, è accaduta una cosa: un centinaio di manifestanti sono andati ad assediare Vannacci che doveva parlare della sua candidatura, o di quel libro, non so. Comunque lui è arrivato a Napoli e i manifestanti hanno detto «no guarda non ti permetteremo di farci tornare lì, nel frame prima della scena dell’osso». L’hanno fatto con una parola “Vergogna”.

L’hanno fatto con allegria, come un carnevale, mentre pioveva, sul lungomare. Un sito riporta che a un certo punto la polizia ha fatto una carica di alleggerimento perché hanno cominciato a lanciare dei palloncini pieni di acqua. Insomma hanno saputo prenderlo per quello che era, che altro ci vuoi fare con uno così?

Ebbene io (chiedo scusa per questo io) mi sono sentita difesa. Mi hanno messo allegria, ma soprattutto mi hanno fatto sentire di nuovo quel senso di comunità per cui chi è ferito a morte si mette a guarire da un lato e gli altri gli fanno quadrato attorno affinché guarisca. Infatti ho scritto.