Si intitola Lo spazio non è neutro. Accessibilità, disabilità, abilismo (Tamu, pp. 180, euro 15) e lo ha scritto Ilaria Crippi che con rigore e passione sfata alcuni luoghi comuni e altrettante strettoie con cui abbiamo a che fare tutti e tutte.

Attivista disabile e lesbica, l’autrice ha 36 anni e ha vissuto tra l’Emilia e il nord Europa collaborando con diverse organizzazioni per la promozione dei diritti delle persone con disabilità. Si occupa di disability studies e ricerca emancipatoria, accessibilità e vita indipendente.

Lei evidenzia come vi siano diverse retoriche intorno alla nominazione della disabilità.

Premetto che per me il dibattito sui termini da usare non è un’arma per censurare il «politicamente scorretto», ma solo un utile pretesto per ragionare su cosa intendiamo con disabilità, e su come il linguaggio riflette le nostre idee al riguardo. I significati che attribuiamo alle parole si evolvono nel tempo: alcuni termini che venivano usati correntemente, anche nella nostra legislazione (come invalido o handicappato) oggi appaiono offensivi. Pure «diversamente abile» è un eufemismo ormai superato, e ora si preferiscono «persona con disabilità» o «persona disabile».

Il primo è utilizzato a livello istituzionale, ad esempio nella convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, per enfatizzare il fatto che l’identità di una persona non si esaurisce nella sua disabilità. Nei movimenti di attivismo, però, c’è chi preferisce «persona disabile» perché richiama l’inglese disabled, che sottolinea quanto siamo «disabilitate» da una società inaccessibile e oppressiva. Purtroppo in italiano questa sfumatura data al participio passato si perde, per cui recentemente c’è chi ha proposto l’utilizzo di «persone disabilizzate».

L’abilismo indica la discriminazione verso le persone con disabilità, non solo negli effetti più lampanti, dal genocidio al bullismo, ma anche in quelli meno palesi. Se tuttavia razzismo, sessismo, omofobia sono parole entrate a pieno titolo nella discussione pubblica da diversi anni, l’abilismo non è così compreso.

La parola abilismo non indica solo atti deliberati di discriminazione, ma un sistema di pensiero che considera «tipicamente umano» solo ciò che corrisponde a un certo modello di corpo-mente standard. È in base a questo modello che sono costruiti e organizzati gli spazi in cui viviamo, ma anche le strutture sociali in cui cresciamo, come famiglie, scuole e così via. Siamo tutte abituate ad aspettarci che se non rispondi a quel modello standard «è ovvio» che tu possa fare meno cose, accedere a meno spazi e opportunità. «È ovvio» che siano le persone non disabili a decidere cosa eventualmente concederti, e che tu debba essere anche grata per quella briciola di libertà, ben lontana da un’eguaglianza sostanziale.

Combattere l’abilismo significa non solo combattere contro questo o quel disservizio verso le persone disabili, ma mettere completamente in discussione questi presupposti. Significa osservare che quel posto inaccessibile, quella procedura lunghissima, quel commento inadeguato sono tutti risultati di un sistema che non prevede le nostre esistenze, se non come fastidiose eccezioni in un mondo costruito per altri corpi.

La studiosa femminista Aimi Hamraie che per prima ha nominato i «critical access studies» o anche Tanya Titchkosky, protagonista dei «disability studies», sono solo due dei numerosi esempi che lei riporta riguardo un dibattito acceso oltre i confini italiani che ora conta una vasta bibliografia. In che modo ci si può interrogare su questi temi anche fuori dai perimetri teorico-tecnici?

Quando ho incontrato i disability studies ho pensato: che senso ha che queste idee stiano confinate tra gli addetti ai lavori? È un peccato, perché avrebbero un potenziale rivoluzionario dirompente, se davvero le usassimo per ribaltare il modo in cui guardiamo alla realtà che ci circonda, per dare significato alla nostra esperienza di persone disabili e ai conflitti col mondo abilista che viviamo ogni giorno.

Per fortuna, negli ultimi anni sono usciti in Italia anche altri testi divulgativi sull’abilismo: solo per citarne alcuni a cui devo molto, Mezze persone, Che brava che sei, Felicemente seduta, Decostruzione antiabilista. Con Lo spazio non è neutro mi sono inserita in questo filone, provando però a connettermi più esplicitamente alle fonti accademiche e a tradurle in termini più accessibili. Oggi per informarsi sulla disabilità ci sono molti modi, anche grazie ai social che hanno permesso a molte persone disabili di prendere parola e fare divulgazione.

Confesso però che il mio modo preferito per pensare alla disabilità è forse un altro ancora: quello dei gruppi di confronto tra pari. Recentemente dal mio profilo instagram @ilaria.crippi ho lanciato un «laboratorio antiabilista» online, dove ci si confronta a partire da alcuni testi: un po’ un mix tra autocoscienza e autoformazione. L’obiettivo è renderlo un «format» replicabile e spero che si moltiplicheranno i gruppi di questo tipo.

A proposito dell’attivismo, lei cita numerosi episodi storici e anche recenti. Quali le pratiche?

L’attivismo delle persone con disabilità ha una lunga storia, spesso sconosciuta perché si svolge in forme poco visibili. Molte persone associano la parola «attivismo» alle manifestazioni di piazza, oppure, molto recentemente, alla divulgazione sui social. Le persone disabili hanno fatto entrambe le cose, ma c’è un filone di attivismo molto più sviluppato – e invisibile all’esterno – che si svolge nei rapporti con le istituzioni. Gran parte dei diritti e delle libertà pur risicate che abbiamo oggi sono state ottenute grazie al lavoro certosino di confronto con le istituzioni portato avanti da singoli o associazioni di persone disabili (e spesso di loro familiari, per quanto il loro coinvolgimento porti luci e ombre). Pur essendo persone sconosciute al pubblico, sono soprattutto loro che hanno fatto la differenza, partecipando a innumerevoli tavoli di confronto, scrivendo proposte di legge o portando avanti battaglie legali.

Questo avviene tuttora: a livello comunale e regionale esistono consulte e tavoli tematici, a livello nazionale c’è, per esempio, l’«Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità» che si confronta con il governo tramite rappresentanti associativi, ad esempio di FISH e FAND, le due più grandi federazioni. Seguendo i loro social si può avere un’idea dei temi sollevati. Purtroppo sono contesti molto «chiusi» di cui all’esterno si sa poco e dove è difficile entrare per chi non ha agganci e fa attivismo «dal basso».

Questo è un problema perché impedisce il ricambio generazionale e la diversità di genere, a guardare le foto di certi incontri si vedono quasi solo uomini over 60.

Colgo l’occasione per mandare un messaggio alle grandi federazioni: bisogna coltivare spazi di partecipazione e formazione per attiviste disabili, perché quelle energie che magari mettono nel fare un’ottima divulgazione su instagram vengano dirette anche là dove si fanno le leggi, dove si assegnano i fondi da cui dipendono le nostre vite. Va detto poi che molte organizzazioni che dovrebbero tutelare le persone disabili hanno un altro grosso problema: una certa «connivenza» col potere. È difficile che entrino in scontro netto, come fanno altri movimenti. Anche senza ipotizzare che ci siano interessi personali in gioco, va riconosciuto che le associazioni a tutti i livelli, locale e nazionale, sono sostanzialmente sotto ricatto: gli spazi di confronto vengono «concessi» dal potere politico.

Se vieni identificato come attivista scomodo, ci metti un attimo a perdere non solo la poltrona, ma anche la capacità di incidere e portare cambiamento. Questo è un grande freno che impedisce al movimento delle persone disabili di avere la potenza di altri movimenti, stiamo sempre sotto al tavolo a prendere le briciole dal padrone, ma ci accontentiamo per timore di perdere anche quelle briciole lì. La nuova ministra della disabilità, ad esempio, ha modificato la composizione dell’Osservatorio: le Witty Wheels hanno recentemente denunciato la nomina di soggetti le cui organizzazioni di fatto gestiscono strutture residenziali: non è un buon segno per chi lotta contro la segregazione.

Nella cosiddetta «convergenza delle lotte», la costellazione Lgbt+ e femminista ha recepito concretamente questa battaglia o ci sono ancora dei punti critici?

Recentemente la lotta all’abilismo è entrata almeno nella retorica, e talvolta anche nelle pratiche, di questi movimenti. Mi sembra un’evoluzione positiva, raggiunta spesso grazie allo sforzo di singole persone disabili che, dentro questi movimenti, si sono impegnate per renderli più consapevoli e accessibili. Detto questo, c’è ancora molto da lavorare: magari si tenta di fare un Pride accessibile, ma poi i circoli lgbt continuano a incontrarsi in luoghi inaccessibili, escludendo le persone disabili lgbt dalla vita sociale e relazionale.

L’accessibilità è un grosso problema per organizzazioni spesso informali o con scarse risorse, poiché spesso ha un costo. Tuttavia, come descrivo nel libro, anche il problema dei costi va poi sempre interpretato alla luce di scelte sulle priorità, per escludere che siano guidate da un paradigma abilista. Purtroppo l’inaccessibilità è ancora considerata un male tollerabile.

Ho visto in certi gruppi grande fermezza nel rifiutare situazioni o accordi contrari ai propri valori, ad esempio perché in odore di fascismo, razzismo, sfruttamento dei lavoratori e così via. Perché non si applica la stessa fermezza nel rifiutare ciò che non è accessibile?