Velocizzare il corso della giustizia, depenalizzare, ridurre il numero dei reati, portare a compimento la riforma Cartabia, dare piena attuazione al codice di procedura penale “Pisapia-Vassalli” e addirittura – «in prospettiva» – revisionare il codice penale firmato da Mussolini. A giudicare dalle prime dichiarazioni del neo ministro di Giustizia, Carlo Nordio, e dal sincero benvenuto ricevuto dall’Unione delle camere penali italiane («vivo apprezzamento, sarà protagonista di un’autentica svolta liberale», scrivono i penalisti) e da altre organizzazioni di avvocati, si potrebbe pensare ad un baco nel sistema di governo targato Giorgia Meloni. Se così fosse, considerando il noto orientamento per molti versi «garantista» del magistrato veneto, si potrebbe addirittura prefigurare il rischio di una spaccatura interna alla maggioranza di governo, con i “manettari” leghisti a dagli filo da torcere. Ma è davvero così? E cosa bisognerà aspettarsi dal nuovo Guardasigilli in materia di esecuzione penale?

Già nel 2004 Carlo Nordio presiedette una commissione parlamentare per la riforma del codice penale che proponeva un nuovo modello nel quale il carcere era immaginato come l’estrema ratio, in modo da garantire il principio costituzionale del fine rieducativo della pena. La proposta – poi bocciata dalla Lega – puntava sull’abbattimento della custodia cautelare, l’eliminazione delle pene pecuniarie, la conversione della pena detentiva nei casi meno gravi in pene interdittive, ablative o prescrittive, e un sistema di sanzioni meno afflittive purché effettive. Rimaneva però l’ergastolo, totem indiscusso delle destre. I lavori della commissione Nordio, come detto, non portarono poi a nulla di fatto perché l’allora ministro di Giustizia, il leghista Roberto Castelli, impose il suo niet al governo Berlusconi II. Uno scenario un po’ simile a quello descritto ieri dallo stesso Nordio quando ha detto che la riforma Cartabia «andava nella direzione giusta» ma «aveva dei limiti, costituiti da una maggioranza politica che non ne consentiva la piena attuazione, composita e per certi aspetti giustizialista, meno garantista». Anche ieri il neo ministro ha ribadito che «bisogna eliminare il pregiudizio che la sicurezza sia tutelata dalle leggi penali, questo non è vero, lo abbiamo sperimentato sul campo».

Ma la buona «cultura giuridica» (apprezzata anche dal Garante dei diritti dei detenuti nel suo comunicato di auguri istituzionale), fa di Nordio un garantista soprattutto nel campo della procedura penale, come ha dimostrato anche schierandosi con il «Sì» ai referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali. Sull’esecuzione della pena, sul carcere, sulla vita dei detenuti, sulla tutela dei diritti fondamentali delle minoranze, però, il pensiero «liberale» del neo Guardasigilli non si è mai esercitato molto. E non è un caso.

A giudicare dalla sua comunicazione sui social media, dove il refrain è la limitazione delle intercettazioni (e l’eliminazione dell’abuso di ufficio), e la melodia di base è fatta di slogan contro l’«immigrazione clandestina», e a giudicare dai durissimi commenti contro le condanne all’Italia della Corte europea dei diritti umani, c’è da aspettarsi solo il peggio. Ricorda Marilena Grassadonia, responsabile Libertà & Diritti di Sinistra Italiana, che Nordio «paragonò l’omosessualità alla pedofilia durante le audizioni in Senato per la stessa legge». E pochi mesi fa in un’intervista a Libero, parlando del contributo delle leggi sulle droghe al sovraffollamento carcerario, Nordio ribadì il suo orientamento proibizionista: «Le droghe cosiddette leggere non sono solo dannose per il cervello – asserì come un Giovanardi qualunque – ma costituiscono il primo passo verso l’assunzione di quelle pesanti».

Ecco, senza diritti civili (e quindi sociali) e senza una riforma della legge sulle droghe, il garantismo si ferma alle porte delle carceri, quelle stracolme di immigrati, tossicodipendenti e malati psichici.