A 200 giorni dall’inizio della guerra, ieri notte, il quadro sul “fronte interno” americano era significativo. Mentre in Senato si contavano i voti sul pacchetto di nuovi finanziamenti militari, dozzine di nuovi arresti venivano effettuati alla manifestazione di Brooklyn a New York. A Grand Army Plaza 3000 ebrei (fra cui Nan Goldin e Naomi Klein, qui il testo del suo discorso, in inglese) partecipavano a ad un sit-in nei pressi della residenza di Chuck Schumer, presidente del Senato (la più alta carica istituzionale detenuta da un uomo politico ebreo), che in quel momento stava battendo l’approvazione del decreto.

Le immagini in split-screen hanno restituito un America spaccata, pienamente investita ora dalle conseguenze di una politica di sostegno alla strage infinita in atto a Gaza, guidata da un presidente che ripete gli inviti alla moderazione (ora sull’offensiva di Rafah) mentre consegna nuovi carichi di bombe a Netanyahu.

La stessa schizofrenia si estende alla “questione ebraica” che inevitabilmente è venuta collocarsi al centro delle dilaganti contestazioni universitarie.

Dall’epicentro sulla costa est, dove gi arresti sono stati centinaia negli atenei Columbia, Yale e NYU, occupazioni e proteste si sono estese dal Minnesota al Tennessee fino in California (colluttazioni e arresti anche alla USC di Los Angeles) e a una dozzina di altri stati.

In ogni caso l’intervento della polizia nelle manifestazioni pacifiche ha contribuito all’escalation delle tensioni. Gli arresti sono ormai centinaia, alla University of Texas di Austin, gli studenti sono stati caricati dalla polizia a cavallo.

Ci si è messo anche lo speaker della Camera, Mike Johnson, che ieri si è recato al campus della Columbia dichiarando che “è ora di finire questa follia”, chiedendo le dimissioni della rettrice giudicata troppo “inefficace” e invocando l’intervento della guardia nazionale. È stato subissato dai fischi degli studenti.

Il pugno duro con cui vengono represse le proteste sta scaraventando il paese in un vortice temporale che rimanda alle contestazioni storiche e al ruolo che negli Stati uniti queste hanno avuto in momenti di profonda instabilità e progresso sociale.

Le incursioni della polizia e la tolleranza zero vengono giustificate dall’esigenza di garantire la sicurezza degli studenti anche a costo di limitare la libertà di espressione. Il presunto “pericolo” per gli studenti ebrei viene però esteso a un generico “disagio” estendibile ad ogni espressione di solidarietà con la Palestina.

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Il teorema è smentito però dalla natura pacifica delle occupazioni dove questa settimana un principale strumento di protesta sono i Seder di Pesach, in cui la narrazione del pasto di liberazione della Pasqua ebraica è orientata alla solidarietà palestinese (specificando che la libertà di un popolo non può dipendere dall’oppressione di un altro).

In questi giorni i rituali sono stati celebrati un pò ovunque nel movimento, che sin dall’inizio è stato guidato da una forte componente di giovani ebrei (come parte del circuito IfNotNow, il laboratorio ebraico antirazzista ne ha tenuto uno a Roma il 28 marzo).

L’immagine stride con la caratterizzazione delle bolge filoterroriste dipinte dalla destra che invoca militarizzazione a oltranza o anche della Casa bianca che ha definito “inaccettabili espressioni che promuovano violenza o intimidazione della comunità ebraica”.

Ma malgrado tensioni e gli occasionali slogan di effettivo sapore antisemita, nelle centinaia di città interessate non si sono registrate aggressioni.

A oggi gli episodi certificati di violenza rimangono quelli in cui le vittime sono state palestinesi – i tre studenti presi a colpi di pistola in Vermont a gennaio e il bambino di sei anni accoltellato a morte in Illinois ad ottobre.

Una delegazione di studenti della Columbia e del campus gemello di Barnard, minacciati ieri con l’intervento della guardia nazionale prima che l’amministrazione facesse un passo indietro e estendesse i negoziati fino a venerdì, prima del Seder ha parlato alla stampa.

“La protesta pacifica fa parte della tradizione ebraica di solidarietà e liberazione,” ha detto Sarah Borus, una degli studenti arrestati e sospesi questa settimana sul campus della Columbia. “Non mi sono mai sentita più orgogliosa di essere ebrea che quando sono stata trascinata via in manette (da qui) con altri 107 studenti (fra questi15 ebrei, nda).

“L’equiparazione di protesta e antisemitismo è una distrazione dall’ecatombe a Gaza”, ha aggiunto nel giorno in cui venivano svelate fosse comuni a Khan Younis e nuovi raid israeliani mietevano vittime civili inermi.

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La strumentale conflazione di contestazione pacifista e antisemitismo è antistorica, tra l’altro, rispetto al ruolo dei militanti ebrei in coalizioni progressiste come quella per i diritti civili della comunità afro americana.

L’attuale movimento vuole invece rinsaldare quei legami storici. Martedì, durante le primarie in Pennsylvania, gli attivisti di IfNotNow hanno lavorato per la vittoria di Summer Lee, deputata black e filopalestinese che affrontava la sfida di una avversaria finanziata da lobby pro Israele.

“Siamo costernati da come l’antisemitismo viene strumentalizzato e utilizzato come pretesto per reprimere la libertà accademica, il pensiero critico e il dibattito aperto cui gli atenei americani dovrebbero essere votati”, ha affermato alla Columbia Mariann Hirsch, professoressa di studi dell’Olocausto e figlia di sopravvissuti alla Shoah. Con molti colleghi è stata firmataria di una lettera della associazione dei docenti universitari contro la presenza della polizia negli atenei e per la reintegrazione immediata di studenti sospesi e personale licenziato.

Molti docenti garantisti sono effettivamente stati arrestati nei giorni scorsi assieme agli studenti, alcuni sono stati licenziati da amministratori a loro volta minacciati con la fine della carriera nelle udienze della commissione parlamentare contro l’antisemitismo.

Il tutto porta a un’atmosfera che rimanda al maccartismo, comprese le richieste di autodenuncia e le accuse di “fellow traveler” scagliate a presunti “simpatizzanti’ di Hamas, come venivano impiegate contro i filocomunisti settant’anni fa.

Ma sono soprattutto le convulsioni negli atenei contro una sanguinosa guerra giudicata coloniale a schiacciare oggi il paese sul proprio passato.

Manifestanti sulla statua del generale Logan il 26 agosto 1968 a Chicago
Manifestanti sulla statua del generale Logan il 26 agosto 1968 a Chicago, foto Ap

La repressione della libertà di espressione rimanda al free speech movement nato a Berkeley nel 1964 con le battaglie con la polizia e l’occupazione del rettorato, lo stesso Sproul Hall cinto oggi dal pacifico accampamento di solidarietà Free Palestine. Nel ’68 poi quel movimento, allargato ai diritti civili e contro la guerra in Vietnam si era esteso a tutti i college d’America, e alla Columbia avrebbe avuto alcuni degli scontri più aspri. In particolare, proprio nell’aprile di quell’anno, la polizia fece più di mille arresti nel campus.

In California sugli attacchi al movimento si costruì la carriera politica di un giovane governatore di nome Reagan, mentre i disordini alla Convention democratica di Chicago contribuirono alla campagna law and order e alla vittoria di Nixon alle presidenziali. Per singolare coincidenza, anche quest’anno il partito di Biden si riunirà a Chicago per cercare di unificare una base ugualmente divisa.

Per i contestatori la lezione da trarre dal passato non dovrebbe essere, come hanno scritto alcuni, di “non esagerare col pacifismo”. Semmai di prendere atto della maturità civile e politica che finì per scaturire da quegli eventi, e il ruolo centrale dei movimenti studenteschi nell’ingenerare progresso politico.

Negli anni ‘80, ad esempio, il movimento studentesco si coalizzò attorno alla richiesta di disinvestimento dal regime di apartheid sudafricano. Dopo anni di lotta finirono per aderirvi 155 atenei.

È l’obiettivo che si prefigge anche questo movimento, e forse anche quello di proporsi come germe necessario di un partito terzo, alternativa al bipolarismo della guerra, l’economia di guerra, la logica e l’egemonia totalizzante della guerra. Sullo sfondo di un’elezione oltremodo incerta e “insoddisfacente.” E di una accelerazione reazionaria globale.