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Il doppio carcere che il governo calpesta

Il doppio carcere che il governo calpesta

Ddl sicurezza Mettere le persone recluse nell’impossibilità di protestare sconvolge il quadro della vita dentro perché nella grande comunità tutti i reclusi sono legati l’un l’altro

Pubblicato 7 giorni faEdizione del 20 settembre 2024

Il disegno di legge «sicurezza» approvato alla camera comprime il già minimo stato di diritto riconosciuto ai detenuti in carcere. La punibilità della resistenza passiva non farà che aumentare la frustrazione di chi vive situazioni di estremo disagio senza poterle chiaramente manifestare.

L’effetto a lungo termine, che il governo evidentemente non considera, riguarderà non solo il dentro ma anche il passaggio inevitabile dalla reclusione alla vita civile. Poiché il carcere è un’unità composta da due parti diverse ed indivisibili: l’una senza l’altra non potrebbe né esistere né essere pensata. Una metà di quest’unità è rappresentata dal carcere visibile, quello dei celloni sovraffollati, dei suicidi, delle grate e dei cortili quadrati in cemento grigio. Questo è l’oggetto di cui si discute quando si parla di carcere. È il dentro, tutto quello che succede alle persone in prigione.

L’altra metà è invece il carcere che ti entra dentro e che non esce più: il marchio che rimane impresso a chi ha vissuto per un periodo sufficientemente lungo in prigione da potercisi abituare. La seconda metà dell’unità carceraria è quella più complessa poiché fortemente psichica e non più fisica, e cioè quella che trasforma in profondità chi vive l’esperienza del carcere ed è composta da tutto quello che succede alle persone dopo che sono state in reclusione ed qualcosa a cui il governo non sembra pensare.

L’alterazione dell’equilibrio psichico nel passaggio dal dentro al fuori segna un trauma generato durante la detenzione ma che si manifesta, quasi automaticamente, dopo di essa. Essere detenuti è essere sottoposti ad una condizione di vita radicalmente diversa da quella di cui si fa esperienza nella vita civile. Si sa che l’essere umano è volubile e si adatta all’ambiente che lo circonda, così si adatta anche a vivere nel carcere, che non è solo il luogo dell’espiazione della pena e della rieducazione ma è anche e soprattutto un modo diverso di stare nel mondo.

Lo stereotipo del carcere ha forgiato l’immaginario sul canone della pericolosità del luogo, una sorta di giungla di sofferenza dove è bene guardarsi da tutto e da tutti. La realtà è ben diversa e le case di reclusione sono in tutto e per tutto un habitat con le sue leggi, le sue prospettive e le sue regole. Dopo tanti anni di prigione si esce da un luogo dove non ci sono cellulari, dove l’onore è una cosa concreta, si spediscono lettere, si vive in comunità, non circola denaro, non ci si sottrae alle parole e non è lecita l’intimità se non sotto gli occhi indiscreti dei poliziotti. Nei reparti le persone si mischiano come si mischiano le carte in un mazzo: vivere a stretto contatto con chi fuori avresti giurato di non frequentare mai è un’esperienza che scuote nelle fondamenta tutte le convinzioni maturate vivendo da liberi. Sono effettivamente poche le cose buone che si imparano in carcere: tra queste c’è il senso del vivere in comunità, costretto a condividere il niente che hai.

Ho sentito un amico dire che stare in carcere è come stare in trincea, non ci saranno assalti alla baionetta e avanzamenti ma si impara a condividere la paura, la malinconia, la nostalgia e le lettere da casa. Si passa insieme attraverso un tempo vuoto che incombe. Mettere le persone recluse nell’impossibilità di protestare sconvolge il quadro della vita dentro perché essendo il carcere una grande comunità tutti i reclusi sono legati l’un l’altro.

Il passaggio dalla reclusione alla libertà è tremendamente difficile perché il carcere non è stato in grado di preparare al reinserimento. Al contrario ha proceduto attraverso un annichilimento che trasforma uomini e donne in soggetti vulnerabili, alienati, soli e privi di una qualsivoglia forma di aggiornamento lavorativo. Le case di reclusione in Italia disegnano una geografia di bolle temporali ramificate in ogni angolo del territorio, con le quali la società civile ha estrema difficoltà ad interagire, paradossale per una contemporaneità dove le barriere e gli impedimenti a comunicare sono totalmente crollati. L’alienazione tra dentro e fuori è tale che spesso chi esce di prigione si sente più solo e più disperato di prima. Le due parti dell’unità carceraria, il dentro e il fuori, non rappresentano un’unità fine a sé stessa, ma un ingranaggio rodato per creare esclusione sociale, per allontanare dal corpo sano la parte malata.

C’è veramente bisogno di ripensare al carcere come causa e come effetto, rielaborando l’esperienza della detenzione come parte di una struttura che espande le sue condizioni anche al di fuori delle sue mura. Il rapporto stretto, mediatico, tra l’immaginario carcerario e la realtà della detenzione non è che una maniera univoca di voler categorizzare una struttura senza valutarne gli impatti sulle persone che la abitano. La trasversalità del carcere e la necessità di rielaborarne le fondamenta riguarda tutta la cittadinanza e non solo una parte.

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