Il diritto internazionale affosserà le nuove norme anti-migranti
Il decreto Piantedosi, che ostacola i salvataggi delle Ong, contiene una lunga serie di illegittimità. Farà danni ma avrà vita breve, farà la stessa fine dei vecchi decreti Salvini
Il nuovo decreto sull’immigrazione avrà vita breve, ma produrrà molti danni. Sarà fonte di contenziosi giudiziari che si concluderanno con assoluzioni dei comportamenti tenuti dalle navi le quali, pur se avranno violato le norme italiane, avranno operato nel rispetto di quelle internazionali cui anche il nostro Paese ha l’obbligo di conformarsi.
Insomma, subirà la stessa ingloriosa sorte dei decreti Salvini.
Tutto ciò alla luce di una semplice constatazione: le regole imposte alle navi di salvataggio si pongono in contrasto non solo con l’articolo 10, I e III comma, della nostra costituzione, ma anche con la normativa di diritto internazionale e, in particolare, con la Convenzione di Ginevra del 1951, quella di Amburgo del 1979, quella di Montego Bay detta “del diritto del mare” del 1982, quella di Dublino III del 2013, nonché in contrasto con le regole definite dalla convenzione Solas e le linee guida dell’Organizzazione Internazionale Marittima.
Vediamo di mettere assieme e confrontare la normativa richiamata.
La Convenzione di Ginevra, all’art. 33, stabilisce il principio di non respingimento (non-refoulement) per chiunque chiede protezione. È la sola richiesta a far nascere il diritto che si consegue immediatamente, in attesa dell’eventuale successivo riconoscimento e sua stabilizzazione.
D’altronde secondo l’articolo 10, III comma, della nostra Costituzione il diritto d’asilo deve essere assicurato agli stranieri entro il territorio della nostra Repubblica. Si aggiunge “secondo le condizioni stabilite dalla legge”, ma la normativa nazionale, in ogni caso, non può operare in contrasto con il diritto internazionale generalmente riconosciuto (I comma).
In proposito, la Convenzione sul diritto del mare impone ad ogni nave di prestare soccorso a chiunque sia trovato in condizione di pericolo (d’altronde anche l’art. 593 del c.p. prevede il reato di omissione di soccorso), mentre il regolamento di Dublino stabilisce che la richiesta d’asilo sia esaminata dal primo Stato membro cui si rivolge lo straniero, anche se arrivato clandestinamente.
Infine, sono da richiamare la convenzione di Amburgo che assegna la responsabilità della ricerca e del soccorso in mare agli Stati (Capitaneria e Guardia costiere), da effettuarsi in base a quanto stabilito dalle linee guida dell’IMO, che ricordano come ogni attività estranea al salvataggio debba essere gestita a terra e compiuta una volta approdati nel “porto sicuro” (place of safety), il cui raggiungimento è dunque parte integrante dell’operazione di soccorso.
Dopo questo lungo elenco di disposizioni siamo in grado di valutare se il decreto del governo italiano rispetta o meno gli obblighi internazionali e la Costituzione.
Limitiamoci qui a ricordare le due misure più odiose, tralasciando, per ragioni di spazio, quelle relative agli obblighi informativi e richieste di autorizzazioni che devono essere possedute dalle navi che svolgono attività di ricerca e soccorso in mare, anch’esse contestabili.
Anzitutto, l’imposizione di accertare le intenzioni dei naufraghi di far richiesta della protezione internazionale prima dello sbarco.
È questa una misura inutile, azzardata e illegittima.
Inutile, perché l’equipaggio o il capitano della nave non sono autorità abilitate sul piano internazionale a svolgere funzioni di tale tipo.
Azzardata, perché è chiara la finalità della legge italiana di aggirare l’obbligo assunto con la sottoscrizione del regolamento di Dublino che imputa agli Stati di primo approdo l’esame della domanda di protezione, provando ad ascriverla invece allo Stato di bandiera della nave di soccorso. Ma nessuno Stato straniero accetterà questa anomala interpretazione del “diritto di bandiera” e ciò non potrà che portare ad un isolamento dell’Italia nel contesto internazionale.
Una misura, infine, illegittima perché estranea agli esclusivi obblighi di salvataggio cui deve attenersi la barca in fase di navigazione alla ricerca del porto sicuro, così come prescritto dalla normativa internazionale.
La redazione consiglia:
La Commissione Ue: «Stati rispettino legge del mare, i soccorsi sono un obbligo»L’altra misura illegittima riguarda gli obblighi internazionali che gravano sullo Stato italiano, essenzialmente quello di garantire l’approdo. In questo caso è duplice la violazione.
Da un lato, si esige che la nave richieda, nell’immediatezza dell’evento, l’assegnazione del porto di sbarco, da raggiungere “senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso”, dall’altro si instaura la prassi contraddittoria di assegnare un porto assai lontano dal luogo del salvataggio.
È chiara anche qui la finalità di entrambe le misure. Nel primo caso si vuole cercare di impedire che si possano compiere altri soccorsi prima di giungere in porto, nel secondo caso si vuole tenere più a lungo possibile la nave impegnata fuori dalle zone di intervento.
È solo il caso di far presente che l’obbligo di richiedere l’assegnazione del porto di sbarco non può impedire il soccorso di altre imbarcazioni in difficoltà che si dovessero incontrare durante la rotta, anzi certamente il salvataggio di altri eventuali naufraghi viene prima di ogni altro obbligo e interromperebbe necessariamente la navigazione verso il porto assegnato. È questa la prima delle regole del diritto del mare.
Per quanto riguarda invece l’assegnazione del luogo di sbarco, se è vero che il “porto sicuro” non necessariamente coincide con il “porto vicino”, l’irragionevole indicazione di un “porto lontano” deve essere considerata in contrasto con l’obbligo che incombe sulle autorità nazionali di assicurare la conclusione delle operazioni di soccorso.
Bastano questi pochi accenni per prevedere una vita breve al decreto, costellata da sentenze dei giudici europei, costituzionali e nazionali che vanificheranno la normativa introdotta, con un eccesso di arroganza, dal governo italiano. In fondo la stessa fine dei decreti Salvini, sotterrati dai giudici penali (ricordate il caso Rackete?).
Questa volta, avendo introdotte misure amministrative al posto di quelli penali, saranno i giudici amministrativi ad affossare Piantedosi?
Ciò di cui non sembra si voglia prendere atto è che la partita sulle migrazioni, anche nella prospettiva di regolarne flussi, non si gioca a livello nazionale.
Se si vuole ottenere una più equa ripartizione della collocazione dei migranti e delle responsabilità dei diversi Stati si promuova il cambiamento della convenzione di Dublino, sottoscritta nelle sue diverse versioni da tutte le forze politiche (la prima nel 1990 da Andreotti, la seconda nel 2003 da Berlusconi, la terza nel 2013 da Letta).
È invece dai tempi di Minniti che ci si impegna nel miope tentativo di arginare i flussi biblici dei migranti da soli. Come voler fermare un esercito di popolo in marcia mostrando un pugno che stringe solo delle mosche, producendo solo morti e smarrimento.
Un “diritto sicuritario simbolico” impotente difronte ad un fenomeno che non si può fermare, ma si deve invece regolare unendo solidarietà tra popoli e nazioni.
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