Un lavoro certosino, quello condotto dalla Commissione ambientale dello stato nigeriano del Bayelsa, uno dei nove che compongono la regione del Delta del Niger. Quattro anni di impegno e ricerche che hanno dato risultati sconvolgenti quanto purtroppo prevedibili. In base ai ben 2.500 elementi di prova raccolti, tra cui 500 interviste e l’analisi di 1.600 campioni di sangue della popolazione locale, la Commissione ha potuto trarre la conclusione che i danni causati dall’attività di estrazione petrolifera portata avanti dalle multinazionali occidentali, con Shell (Regno Unito), Eni (Italia) e Total (Francia) in prima fila, ammontano a 12 miliardi di dollari.

Tanto bisognerebbe spendere per realizzare bonifiche di pezzi di territorio altamente contaminati di una delle aree africane più ricche di oro nero e per queste sfruttate in maniera massiccia dalla metà del secolo scorso.

Eni in particolare gioca un ruolo chiave in Bayelsa gestendo uno dei tre terminal petroliferi della Nigeria, quello di Brass, sui cui impatti esistono numerose controversie da decenni. Nel rapporto finale si legge che «ogni anno si verificano 234 fuoriuscite di petrolio» in uno Stato che si estende su appena 3.500 chilometri quadrati. Fra il 2006 e il 2020, almeno 110 mila barili di petrolio sono stati versati nei suoi fiumi, paludi e foreste, il 90% dei quali proveniva da impianti di proprietà di sole 5 compagnie petrolifere. Ovvero le già citate Shell, Eni, Total e le statunitensi Chevron ed ExxonMobil.

Il rapporto afferma che in 50 anni di produzione di idrocarburi a Bayelsa potrebbe essere stata sversata una la quantità di petrolio fino a 10-15 volte quella del gigantesco disastro della Exxon Valdez del 1989. Non è un caso, allora, che «la regione, che un tempo ospitava una delle più grandi foreste di mangrovie del pianeta, ricca di diversità e valore ecologico, sia oggi uno dei luoghi più inquinati della terra». Le foreste di mangrovie sono essenziali per limitare le inondazioni, che anche in quell’angolo di mondo stanno aumentando in maniera esponenziale a causa della crisi climatica provocata dall’uso dei combustibili fossili.

Kathryn Nwajiaku-Dahou, a capo del gruppo di esperti che ha fornito un contributo fondamentale per la realizzazione del rapporto, ha sottolineato che «per le persone che vivono nel Bayelsa l’aria che respirano, l’acqua che bevono, il pesce da cui dipendono e le terre che coltivano sono tutte intrise di petrolio». La commissione avverte che le cifre presentate, già di per sé drammatiche, sono quasi certamente sottostimate, dal momento che la maggior parte delle statistiche sulle perdite di petrolio nel delta del Niger sono pubblicate dall’ente del governo federale della Nigeria che si avvale delle stesse multinazionali petrolifere per trasportare i suoi ispettori nelle aree remote dove si verificano sversamenti di petrolio, e le cifre frutto di queste ispezioni «guidate» sono fino a tre volte inferiori al numero di barili persi registrati da altri enti del governo nigeriano che sono responsabili del monitoraggio della produzione.

Quanto mai significativa la testimonianza concessa ai ricercatori da Bubaraye Dakolo, sovrano tradizionale del regno di Ekpetiama e presidente del Bayelsa State Council of Chiefs. «Vivo a meno di 500 metri da un impianto petrolifero multimiliardario che emette nell’aria gas tossici. L’enorme sofferenza causata dall’inquinamento da petrolio nel mio regno mi colpisce, mi soffoca e mi guarda in faccia ogni giorno».

Il report è stato reso pubblico mentre compagnie come la Shell stanno di fatto «abbandonando» il Delta del Niger, spostando le loro operazioni in pozzi offshore in acque profonde, nel tentativo di «limitare» gli impatti delle loro attività sulle popolazioni. La Shell è oggetto di diverse cause legali in numerosi paesi per l’impatto delle sue operazioni in Nigeria.

Per gli ambientalisti del Bayelsa la Shell avrebbe dovuto intraprendere le dovute bonifiche prima di cedere le sue attività. Temono, infatti, che sia la compagnia britannica che le altre presenti nel Delta si lasceranno alle loro spalle solo caos e distruzione. Per questo la commissione spinge affinché «Shell, Eni e gli altri colossi petroliferi creino un fondo di 12 miliardi di dollari per danni arrecati agli ecosistemi e alle comunità di Bayelsa negli ultimi 50 anni. Nel 2022, Shell ha realizzato profitti record che ammontano a circa 40 miliardi di dollari. Stesso discorso per l’italiana Eni, con profitti che si sono attestati sulla somma di 14 miliardi di dollari.

La Shell non ha commentato i risultati del rapporto, mentre l’Eni attribuisce le perdite di greggio a furti commessi da soggetti terzi e assicura di aver intrapreso le attività necessarie per limitare gli effetti delle perdite. A Milano Finanza Eni ha rincarato la dose sostenendo che il rapporto contenga numeri e ricostruzioni senza valore da parte di organizzazioni non ufficiali. Posizione meno singolare, visto che la Commissione è un organo ufficiale dello Stato di Bayelsa.