«La sua poesia è stata il grido della nostra adolescenza» scrisse un po’ enfaticamente François Mauriac a proposito di Anna de Noailles (1876-1933), autrice di culto della Belle Époque che faceva parte di quel non troppo ristretto gruppo di aristocratici e presunti tali frequentato da Proust (ma tra le sue amicizie figuravano anche Rilke che a Parigi ambienterà I quaderni di Malte Laurids Brigge e Rodin che la rappresentò in un busto). Non è un caso che il suo mentore fosse il cugino Robert de Montesquiou, inimitabile modello di Des Esseintes, controverso protagonista del romanzo À rebours di Huysmans, e del barone Charlus nella Recherche. Figlia di un principe rumeno di origine valacca e di una pianista di Costantinopoli che ospitò Paderewski, la poetessa parigina, il cui vero nome era Anna-Élisabeth Bibesco Bassaraba de Brancovan, dopo un’educazione cosmopolita sposò il conte Mathieu de Noailles. Il suo salotto divenne uno dei punti di ritrovo della rutilante Parigi fin de siècle, nonostante le sue prese di posizione fossero spesso controcorrente (si pensi al sostegno manifestato a favore di Dreyfus e alle simpatie di taglio socialista).

Autrice di un’opera multiforme che comprende un’autobiografia, tre romanzi e varie raccolte di novelle, in questi ultimi anni Anna de Noailles è tornata al centro della ribalta per la riscoperta fattane a livello internazionale, come avverte nella sua introduzione Marzia Minutelli che cura, in maniera impeccabile, Il cuore innumerevole Le Cœur innombrable (Passigli, pp. 256, € 24,00). Si tratta della raccolta poetica d’esordio, edita nel 1901 da Calman-Lévy, che ebbe un notevole successo, suscitando l’entusiasmo di Maurice Barrés, Anatole France e Pierre Loti, ma anche l’ironia di qualche detrattore che definì la poetessa «Muse potagère» anziché «Muse des jardins» (da lì si passò a «Muse du radis», ovverosia a «Musa del ravanello», come scrisse il sulfureo Jean Lorrain). La raccolta, strutturata intorno a sei sezioni «di consistenza decrescente», si basa su una versificazione di taglio tradizionale che risente dell’influsso di Victor Hugo, un cui distico è citato in esergo alla raccolta che si sviluppa in maniera accorta e originale: «Ho nella bocca il gusto dell’azzurro e del vento». Ispirandosi all’élan vital bergsoniano, orientato al recupero degli elementi naturali, questo «proteiforme cuore muliebre si spoglia del suo involucro umano (…) ora vegetalizzandosi ora mineralizzandosi», come precisa la curatrice che parla altresì di «misticheggiante panteismo naturalistico».

L’alessandrino viene reso con il verso martelliano, mentre per i più occasionali hexasyllabe e octosyllabe si ricorre al settenario e al novenario. Il risultato è convincente, anche se giocoforza la traduttrice è costretta a prendersi qualche libertà espressiva che tuttavia non inficia il dettato originale, in virtù del tentativo di aderire alle rime presenti nelle strofe regolari (generalmente quartine) spesso restituite mediante assonanze, consonanze e paronomasie. Con l’avvento dei Calligrammes di Apollinaire e delle avanguardie questa poetica subirà un indiscutibile ridimensionamento, anche se, nell’entre-deux-guerres, verrà teorizzato un Rappel à l’ordre, come si intitola un libro di Cocteau del 1926, che si diffonderà oltralpe.
La resa italiana del titolo combacia con un enjambement tratto dalle Laudi («pel cuore / Innumerevole») dell’amico D’Annunzio e, curiosamente, con un sintagma che figura nel romanzo Mors tua di Matilde Serao, oltre che con il nerudiano «corazón innumerable». Innumerevoli richiami postumi per un cuore che, espiantato, troverà ricetto, come auspicato dalla medesima poetessa, nella cappella del convento delle clarisse di Évian.