Il corpo recluso senza alcuna difesa
Medici penitenziari Anche nei fatti di Ivrea emerge in modo inquietante il ruolo dei sanitari in carcere
Medici penitenziari Anche nei fatti di Ivrea emerge in modo inquietante il ruolo dei sanitari in carcere
Anche nei fatti di Ivrea emerge in modo inquietante il ruolo dei medici. Inquietante perché appaiono silenti o complici attivi della violazione del corpo recluso, quel corpo che Daniel Gonin, medico penitenziario che molto ne ha scritto, descrive come «quel sacco di pelle» dentro cui chi è detenuto tenta di proteggersi, di rimanere intero. Un sacco di pelle aggredito, offeso, lacerato, che si ritrova senza alcun difensore. Il medico dovrebbe essere questo difensore: per deontologia, per dovere, per dignità, per autonomia. La complicità dovrebbe essere quella tra medico e paziente, con il suo diritto all’inviolabilità e alla cura, non con chi vi attenta.
Inquietante anche perché questa subordinazione ancillare dei medici ai poteri che governano il carcere, e ai suoi riti più oscuri e violenti, è ricorrente, non una eccezione. Fa impressione leggere i verbali delle violenze a Sollicciano, a San Gimignano, a Torino, fino ai morti del carcere di Modena: pongono interrogativi radicali non solo sui singoli medici coinvolti, ma su un sistema e su una cultura della pena. Il corpo di chi è recluso/a appare un corpo a perdere, un corpo-oggetto, su cui già si esercitano tutti i dispositivi di annichilimento della detenzione, ed è proprio per questo che dovrebbe scandalizzare che chi ne ha (ne dovrebbe avere) la tutela, giri lo sguardo o peggio regga il gioco, come se lavorare lì dentro significasse derogare a tutto ciò che un medico deve fare ed essere.
Con il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, nel 2008, si intendeva avvicinare il diritto alla salute di chi è recluso a quello di ogni altro cittadino. Insomma, pari prestazioni e pari diritti. Non è andata così, non sta andando così. E non solo nelle situazioni più estreme, dove il gesto di un medico può salvare incolumità, dignità e vita di chi è recluso; ma anche spesso – fatti salvi quanti restano fedeli alla loro professione – nel quotidiano, quando si ha a che fare con il rispetto di privacy e riservatezza, con il diritto alle cure, con condizioni (aria, luce, movimento, cibo, isolamento…) che violano salute e diritti fondamentali. Troppo spesso si glissa, si deroga, si delega. Si tace. Questa ancillarità non è giustificata dalla legge, è solo una questione di potere, tra poteri. La professione medica dovrebbe rivendicare il suo, di potere: che è quello di non permettere che «quel sacco di pelle» venga lacerato.
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