Il circolo vizioso del «salvataggio» delle banche
Nuova finanza pubblica La rubrica settimanale a cura di Nuova finanza pubblica
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I numeri forniti dagli istituti di statistica sui conti pubblici descrivono uno spaccato non solo della ripresa in corso, ma delle prospettive economiche strutturali dell’Italia, delle sue difficoltà e di quali potenzialità dovrebbe sviluppare per raddrizzare il proprio status. Insomma costituiscono una sorta di check-up.
L’Istat sostiene che il reddito disponibile delle famiglie sia aumentato di alcuni decimali negli ultimi mesi dello scorso anno, altrettanto vale per i consumi, persino la propensione al risparmio aumenta.
Sempre di pochi decimali di crescita si parla per gli investimenti. Complessivamente il Pil nazionale è in espansione, nel 2016 dello 0,9% e nel 2017 persino dell’1,5%.
Quest’ultimo elemento appare il più significativo. Eppure non risulta sufficiente per invertire la tendenza di alcuni dati fondamentali, da diversi anni sotto osservazione degli organismi internazionali.
L’Istat ha appena documentato che il rapporto deficit/Pil è pari al 2,3%, mentre ancora poco più di un mese fa era previsto soltanto all’1,9%, finendo per passare in termini assoluti da 33 a oltre 39 miliardi di euro.
Questa discrepanza viene addebitata da Eurostat ai costi derivanti dai salvataggi bancari. In particolare alle risorse impiegate per intervenire sulle banche venete e su Monte dei Paschi.
Curiosamente l’Istituto europeo mette in relazione diretta le spese sostenute a vantaggio delle banche, compresa quella Banca Intesa che si è fatta carico della parte sana delle banche ormai in ginocchio, con la crescita del deficit annuale.
Indubbiamente tale spesa è temporalmente circoscritta al 2017, per cui si potrebbe ipotizzare una normalizzazione della spesa pubblica già a partire da quest’anno, ma a ben guardare il segmento bancario non ha risolto del tutto i propri problemi.
Il mercato dei crediti deteriorati non decolla e le garanzie pubbliche, uniche garanzie in campo per le banche fallite o quasi, potrebbero essere nuovamente impiegate a fronte di nuovi affanni per altre banche medio-piccole.
Un circolo vizioso che la modesta ripresa del credito non risolve. Il dato più indicativo, però, finisce per essere il rapporto debito/Pil. Lo scorso anno era salito al 132%, fino a non molto tempo fa la previsione per quest’anno si attestava al 131,5%, mentre oggi l’Istat parla del 131,8%.
Per la prima volta dall’esplosione della crisi globale, questo rapporto si contrae, ma solo di due punti decimali, nonostante si verifichi una crescita non più da prefisso telefonico e nonostante l’avanzo primario, cioè il saldo tra entrate e uscite dello Stato al netto della spesa degli interessi sul debito, resti positivo e persino in leggero aumento.
Un paio di anni fa Carlo Cottarelli in un libro sul debito ne prefigurava una riduzione considerevole con una crescita economica prolungata del 3% annuo.
Nel 2017 la crescita ha raggiunto la metà dell’obiettivo, eppure gli effetti sul debito rimangono irrisori. In rapporto al Pil resta pressoché identico e in termini assoluti continua a crescere. Considerato che l’aumento del Pil a un ritmo dell’1,5% non è scontato, tanto che la Commissione europea ipotizza già per il 2019 una riduzione all’1,2%, prendere per buone le ipotesi di Cottarelli significa porsi al di fuori di realistiche previsioni di rientro del debito sovrano. Se il debito, però, resta il principale ostacolo a politiche espansive oggi e magari anti-cicliche domani, si tratta di non incagliarsi su logiche fondate su prospettive di auto-soluzione di impronta mainstream, basate su austerità, privatizzazioni e crescita presunta, ma provare a ipotizzare soluzioni eterodosse.
Ridiscutere l’intoccabilità del debito pubblico, annullare quote di debito in mano ai grandi investitori, quelli che vivono di speculazioni finanziarie, potrebbe costituire una precondizione per aprire una nuova stagione socio-economica.
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