Il 26 e 27 gennaio sono stato coinvolto in due eventi eccezionali: la presentazione a Volterra del progetto di un teatro nel carcere di Volterra (dove da trentacinque anni opera Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza) ad opera dell’arch. Mario Cucinella e a Roma nella Sala Troisi la proiezione in anteprima del film “I nostri ieri” di Andrea Papini, ambientato in un carcere. Il regista ha tenuto a precisare che non assistiamo a «un film scientifico sulla struttura carceraria, non era questo lo scopo», ma il carcere, come evoca il titolo, rappresenta «un pretesto per parlare del rapporto con la nostra memoria e il vero protagonista è il tempo».

Non è questa ovviamente la sede per una recensione critica del film. Mi limito a dire che la visione di una storia così complessa provoca forti emozioni anche per la bravura degli attori e delle attrici: mi auguro che il film abbia il successo che merita nelle sale e che successivamente sia proiettato nelle carceri, agli operatori e ai detenuti, per favorire la riflessione sul senso della pena.

Anche perché la crisi del carcere e la riforma necessaria che invece tarda (col rischio di chiusura della speranza), rendono il tema di grande attualità.

E non casualmente assieme a Peppino Mazzotta e Maria Roveran, due dei protagonisti/e del racconto, sono stati invitati Lucia Castellano, dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria e io stesso con una lunga storia di impegno su giustizia e carcere e attualmente garante dei diritti dei detenuti a Udine. Ha fatto bene Castellano a sottolineare nel film il percorso di consapevolezza di se stessi: «Da operatrice penitenziaria – ha detto- spero che si trasmetta a tutti gli spettatori l’idea che il carcere non può bastare a se stesso; seppure entrare in carcere è sempre molto complicato, e però bisogna farlo, perché la vita delle persone che stanno dentro non è una vita cancellata o sospesa».

Da anni, con ostinazione, denuncio il fatto che il carcere si caratterizza come una discarica sociale, costituita da poveri, soggetti marginali, stranieri, consumatori di sostanze illegali o piccoli spacciatori. Una umanità con pene brevi da espiare e con la difficoltà di costruire percorsi di reintegrazione nella società per la mancanza di opportunità all’esterno, di elementi essenziali come il lavoro e la casa.

Al contrario, il carcere dovrebbe essere riservato solo a chi compie gravi reati contro la persona. In altre parole, la prigione dovrebbe essere destinata ai cattivi, per far emergere responsabilità, elaborare la ricostruzione del passato, proiettarsi nel futuro: il tutto nello spirito dell’articolo 27 della Costituzione, che prescrive che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sulla scia del pensiero di Cesare Beccaria e di Aldo Moro.

Il film ha il merito di mettere in luce la retorica della riabilitazione degli ultimi affidata alla galera invece che al welfare e la difficoltà della concretizzazione di progetti di giustizia riparativa, dell’incontro tra vittima e carnefice nei casi di delitti di sangue.

Scrivo questa nota nei giorni della bufera sul caso Cospito, il cui sciopero della fame contro il carcere duro è definito polemicamente come un ricatto, bloccando così ogni possibile iniziativa di dialogo.

L’Italia non può seguire la strada della Turchia che lascia morire i prigionieri politici in digiuno, se non mettendo in gioco la democrazia e il senso dell’umanità.

Certo, il grande problema è la dubbia costituzionalità del regime duro del 41bis e dell’ergastolo ostativo, tante volte sotto il giudizio della Corte Costituzionale

Forse solo l’arte, il cinema e il teatro (o i libri come “L’università di Rebibbia” di Goliarda Sapienza) possono far capire che cosa è la detenzione e salvare i valori della ragione contro un’idea di pena parente della vendetta.