Internazionale

Il «cessate il fuoco» è fallito. Ue indecisa, Erdogan avanza

Il «cessate il fuoco» è fallito. Ue indecisa, Erdogan avanza

Di male in greggio Tra Tripoli e Bengasi impazza la partita del petrolio. Il Sultano reclama il gas e affonda Bruxelles come «coordinatrice di pace»

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 22 gennaio 2020

I sorrisi e le strette di mano dei leader internazionali riuniti domenica a Berlino per discutere di Libia sono ormai un lontano ricordo. A distanza di tre giorni dal summit, infatti, emergono palesemente tutti i limiti che Berlino aveva provato a nascondere. Innanzitutto la tregua tra il Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto internazionalmente e l’autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico (Enl), raggiunta su mediazione turca e russa il 12 gennaio, non esiste più: gli scontri, ripresi due giorni fa nella periferia meridionale di Tripoli, non sono più ormai sporadiche violazioni.

Raggiunto dal quotidiano saudita al-Sharq al-Awsat, un ufficiale dell’Enl è stato chiaro: «Il cessate il fuoco è ufficiosamente crollato». Notizie che non devono sorprendere: i due nemici, al-Sarraj e Haftar, pur presenti a Berlino, si erano premurati di non incontrarsi mai di persona né avevano partecipato ai lavori che sono stati più un tentativo europeo (per il momento fallimentare) per togliere il dossier libico dalle mani di russi e turchi.

L’OSTILITÀ TRA GNA E ENL è profonda: sugli schermi di al-Jazeera, al-Sarraj ha ieri accusato il suo rivale di non volere la pace e di non essere «un partner affidabile». Non solo perché ha lanciato un’offensiva contro il suo governo lo scorso aprile, ma anche perché da giorni ha imposto un blocco sui giacimenti petroliferi.

LA PARTITA DEL PETROLIO tra Tripoli e Bengasi si fa sempre più tesa: ieri la compagnia petrolifera libica Noc, che ha dichiarato pochi giorni fa lo «stato di force majeure» vista la sua incapacità di operare, ha detto che non invierà spedizioni di gas da cucina nella città di Bengasi «a causa della sospensione delle esportazioni di greggio».

Una decisione che è stata letta immediatamente in Cirenaica come «atto di ritorsione e una punizione collettiva per i residenti della città». E se l’Italia ha espresso ieri la sua «forte preoccupazione» per le sospensioni delle attività petrolifere, la Francia, sponsor di Haftar, starebbe invece lavorando per bloccare un possibile comunicato di condanna del generale cirenaico da parte delle potenze occidentali. L’unità dell’Europa millantata a Berlino si è sciolta come neve al sole.

Nel vuoto europeo, riempito solo da proclami, avanza sempre di più il presidente turco Erdogan. La Turchia, schierata con Haftar e che in Libia ha inviato sicuramente consiglieri, addestratori militari e «ribelli» siriani, si sente (non a torto) sempre più protagonista della scena libica e reclama perciò la sua fetta (soprattutto di gas). Il Sultano è stato chiaro quando ha detto ieri che «visto il coinvolgimento dell’Onu, non è corretto che l’Unione europea (Ue) intervenga come coordinatore del processo di pace in Libia».

UNA PALESE frecciatina verso chi, in Europa (Italia in testa), crede di poter «recuperare il terreno perduto» nel Paese nordafricano gestendo il post-Berlino secondo i suoi interessi.

Più cauto per ora si mostra l’Alto rappresentante dell’Ue Borrell che dovrebbe presentare al prossimo consiglio degli Affari esteri di febbraio una proposta per una missione europea di salvaguardia del cessate il fuoco sotto l’egida dell’Onu.

L’Europa, inoltre, pare ancora non avere una posizione chiara sull’invio o meno di una forza di pace per monitorare la tregua. Se il ministro degli Esteri Di Maio e il premier Conte candidano da settimane l’Italia ad avere un ruolo guida in quest’ambito, contrarietà vengono espresse da più parti. Innanzitutto dell’inviato speciale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamah, secondo cui «in Libia non vi è alcun consenso su truppe straniere», ma anche dalla cancelliera Merkel per la quale «non si dovrebbe discutere del passo successivo prima ancora di compiere il primo».

NEL CAOS LIBICO a sorridere è solo l’Algeria del neo-presidente Tebboune che, grazie al ruolo di «mediatore» in Libia attribuitogli dagli europei (Italia in primis), è riuscita a legittimarsi internazionalmente. Una beffa amara per milioni di algerini che chiedono da febbraio la caduta del regime di Bouteflika (di cui Tebboune è parte) e «giustizia sociale». Algeri, galvanizzata dai consensi ricevuti, si è offerta ieri di ospitare un «dialogo» tra tutte le parti libiche. Ufficialmente per favorire i negoziati nel paese «fratello» confinante.

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