Il cavallo di Troia sotto le mura di Zingaretti e del Pd
Referendum La scelta referendaria interpretata come il cavallo di Troia con cui dare l’assalto decisivo a palazzo Chigi. È l’obiettivo di un fronte trasversale, non quello legittimo e naturale che si esprime nei Sì e nei No al quesito costituzionale, ma quello che usa strumentalmente il voto.
Referendum La scelta referendaria interpretata come il cavallo di Troia con cui dare l’assalto decisivo a palazzo Chigi. È l’obiettivo di un fronte trasversale, non quello legittimo e naturale che si esprime nei Sì e nei No al quesito costituzionale, ma quello che usa strumentalmente il voto.
La scelta referendaria interpretata come il cavallo di Troia con cui dare l’assalto decisivo a palazzo Chigi. È l’obiettivo di un fronte trasversale, non quello legittimo e naturale che si esprime nei Sì e nei No al quesito costituzionale, ma quello che usa strumentalmente il voto.
Non ne fa mistero la destra che anzi sul cavallo mette le sue punte d’attacco, dal forzista Brunetta al leghista Borghi, e senza giri di parole invita a votare No per mandare a casa il governo.
Mentre la famiglia allargata dei renziani, dentro e fuori il Pd, a malapena dissimula le cattive intenzioni.
Se ne è accorto anche Zingaretti che, assediato su tutti i fronti, ieri ha preso carta e penna per scrivere a Repubblica, giornale capofila indefesso della tifoseria che vorrebbe in campo, come capitano del futuro rinascimento italiano, il grande banchiere Mario Draghi.
Per una volta il prudente segretario del Pd non si difende ma attacca. Si rivolge a chi, dentro il suo partito ma soprattutto nella coalizione, chiede a giorni alterni la sua sostituzione e la fine dell’alleanza di governo con i 5Stelle. Se volete le elezioni anticipate «sarebbe meglio avere il coraggio di dirlo assumendosene la responsabilità delle successive conseguenze», giochiamo a carte scoperte è la sfida del leader pd.
C’è in effetti alle viste il tentativo di far scattare un “trappolone” come lo ha definito qualche giorno fa l’ex segretario piddino Bersani.
Una classica «mucca nel corridoio» che suggerisce a Bersani di rivolgersi agli elettori invitandoli a non sottovalutare il fatto che ogni volta «che le forze democratiche non hanno saputo fare di una controversia un campo comune, il paese ne ha poi pagato un caro prezzo».
Solo che questo caro prezzo il centrosinistra lo pagherà sì, ma non sul referendum.
Non solo perché è assai probabile che a vincere saranno gli elettori favorevoli al taglio dei parlamentari, ma perché la sconfitta arriverà invece dal fronte delle elezioni regionali.
Per sua stessa natura il referendum chiama il voto trasversale, e così sarà anche questa volta. Sinistra e destra, da De Magistris a Berlusconi votano No, destra e sinistra, da Meloni a Provenzano, votano Sì.
E il governo, a cominciare dal presidente del consiglio, fa bene a rinviare al mittente la richiesta di pronunciarsi su una materia parlamentare: Renzi del 2016 docet.
Il tavolo sul quale le carte sono più che scoperte è quello delle sfide regionali, dove invece il governo è parte in causa dal punto di vista politico, dal Veneto alla Puglia. Qui purtroppo si gioca a perdere, perché la maggioranza non è riuscita a esprimere alleanze credibili nei territori che vanno al voto tra tre settimane.
La contesa di cui parla Bersani non si è trasformata in campo comune, e nelle amministrazioni regionali si rischia il cappotto.
Le ragioni del disastro annunciato sono molte ma nella sostanza riconducibili a due: il prendere o lasciare del Pd ancora convinto di una inesistente autosufficienza, per esempio in Toscana e in Campania, e nelle Marche la speculare reazione dei 5Stelle.
Ma c’è anche una ragione più di fondo, ovvero l’incapacità di affrontare un bilancio delle realtà locali che vanno al voto, per farne derivare, ex post, la scelta di liste e candidati comuni.
Esattamente il contrario di quel che è avvenuto, con l’eccezione della Liguria. Lasciando così campo libero alle destre che, dovremmo averlo imparato fin dai tempi berlusconiani, corrono unite per vincere.
Certo, la destra si unisce attorno ai pieni poteri, mentre la sinistra avrebbe bisogno di cambiare volti e programmi. Punita da una gestione del potere locale che spesso, nei luoghi disfatti dalla cattiva amministrazione, dalle pervicaci nomenklature locali, si rivela inamovibile, incapace di ritrovare la connessione sentimentale con un elettorato, che, vale l’esempio dell’Umbria, resta facile bottino di guerra fuori dalle mura dei centri storici.
Rimane solo da sperare che gli elettori siano più saggi dei rispettivi gruppi dirigenti.
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