Tra Germania e Turchia rimangono «differenze profonde» ma c’è anche «molto che unisce». La sintesi democristiana della cancelliera Angela Merkel restituisce perfettamente il nulla di fatto nel summit di ieri con il presidente turco Recep Erdogan.

Berlino e Ankara celebrano la «timida distensione» ma restano inamovibili nelle rispettive posizioni sui diritti umani come sulla concezione dello stato di diritto. A mantenere il filo comune tra i due Paesi, ormai, c’è solo la Nato e (formalmente) la lotta al terrorismo. Di fatto, l’unico accordo bilaterale chiuso ieri è la conferenza sulla Siria a ottobre con Francia e Russia per concordare il destino di Idlib; mentre la richiesta del “sultano” di estradare il giornalista «terrorista» Can Dündar ha sbattuto sul secco nein del governo tedesco.

Così a Berlino s’inscena il dialogo tra sordi costretti a parlarsi. Con la cancelliera che sollecita il rilascio dei prigionieri turco-tedeschi incarcerati dal regime del presidente, ed Erdogan che replica stizzito attaccando il giornalista-simbolo della sua persecuzione, da due anni rifugiato in Germania.

Prima che Merkel provi a stemperare il clima sottolineando i comuni interessi. «Abbiamo molto che ci unisce: la partnership nella Nato, la questione dei migranti, la lotta ai terroristi. In più lavoriamo entrambi per una Turchia economicamente stabile» aggiunge Mutti. Insieme alla promessa che il prossimo mese spedirà in Turchia il ministro dell’economia Peter Altmeier, il rinnovo del comune Forum-energia e soprattutto la conferenza sulla guerra in Siria con Putin e Macron entro fine ottobre, per definire la sorte «umanitaria» di Idlib.

Vetrina internazionale su misura di Erdogan, più sicura della visita di stato in Germania. Ieri il sultano è stato ricevuto con il tappeto rosso e gli onori militari, ma è anche inciampato nella protesta di chi è arrivato a manifestargli il dissenso letteralmente sotto il naso. Nel pieno della conferenza stampa con la cancelliera la polizia ha bloccato Adil Yigit, fotografo turco residente ad Amburgo, reo di aver mostrato a Erdogan la maglietta con stampato: «Libertà per i giornalisti».

Poco dopo mezzogiorno era arrivata la conferma della mancata partecipazione alla conferenza di Can Dündar, contrariamente a quanto aveva annunciato ieri. «Ho deciso di non essere presente» ha spiegato via internet l’ex direttore di Cumhuriyet condannato per alto tradimento in Turchia, rifugiato in Germania dal 2016. Il suo nome spicca nella «lista di terroristi» da estradare che i servizi di sicurezza di Ankara hanno consegnato a Berlino: 69 oppositori indicati per nome, cognome, indirizzo e fotografia come riporta la Süddeutsche Zeitung.
Se Dündar avesse formulato anche una singola domanda, Erdogan avrebbe immediatamente abbandonato il palco. Lo stesso da cui poi ha scandito: «Dündar è una spia, ha violato il segreto di stato» a fianco di Merkel che ha cercato di spegnere così la fiammata: «È noto che sul giornalista ci sia controversia. Ma è stata una sua decisione personale di non essere qui ora».

Poche ore prima, in 75 minuti di conversazione a quattr’occhi, il presidente Steinmeier aveva anticipato al “sultano” i casi dei detenuti turco-tedeschi in un’atmosfera che i rispettivi entourage definivano «seria». Poi il «problema» è stato ribadito da Merkel con il sollecito alla «soluzione rapida per i tedeschi incarcerati in Turchia». Prima dell’ammissione che sulla libertà d’informazione come nel rispetto dei diritti umani «rimangono profonde differenze» come ha confessato la cancelliera. Mentre Erdogan chiedeva, ancora una volta, l’estradizione di «centinaia di sostenitori di Gülen riparati in Germania su cui pende il mandato d’arresto».

In compenso, a essersi fermata ieri è stata solo la capitale tedesca, paralizzata fin nel cuore delle istituzioni. Intorno alla cittadella governativa svettava il muro invalicabile della zona-rossa.

Al punto che nel pomeriggio il deputato Linke Stefan Liebich tùittava: «Erdogan ora “arresta” anche i parlamentari. Oggi non verrò alla seduta del Bundestag: è tutto bloccato» mentre la collega di partito Petra Pau rimaneva, al contrario, prigioniera in Parlamento per quasi un’ora.