La drammatica e controversa vicenda Cospito dovrebbe indurre a ripensare i limiti di applicabilità del 41 bis alla luce della Costituzione, la quale pretende che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

E devono tendere alla rieducazione del condannato. La Costituzione punisce, inoltre, ogni violenza, non solo fisica, ma anche morale sulle persone sottoposte a restrizione di libertà. La Corte costituzionale è intervenuta più volte per dichiarare la compatibilità del cosiddetto carcere duro, reso legittimo dalla necessità di salvaguardare la sicurezza e l’ordine pubblico, ma ha condannato gli eccessi.

COSÌ ANCHE la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia, per violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, rilevando non tanto l’incompatibilità della norma in se, quanto il permanere del regime carcerario speciale per detenuti non più in grado di mettere a rischio la sicurezza pubblica. Persino la Cassazione in passato ha ritenuto alcune misure inutilmente vessatorie, interpretando in modo costituzionalmente orientato le disposizioni vigenti.

PROPRIO IL CASO Cospito ha fatto emergere la necessità impellente di ridefinire i confini di una misura immaginata come eccezionale che, però, nel corso del tempo è stata utilizzata estensivamente, e ha finito per perdere i suoi connotati originari. Le incertezze sono dimostrate dai differenti giudizi espressi dalle autorità giudiziarie interpellate a diverso titolo nella vicenda. Interrogati dal Ministro Nordio, la procura generale di Torino si è espressa a favore del mantenimento del regime attuale, mentre la Direzione Nazionale Antimafia ha ipotizzato il passaggio ad un regime meno duro di «Alta sicurezza». Infine, la procura generale della Cassazione ha chiesto alla Corte Suprema di annullare l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza che aveva confermato il regime detentivo differenziato (41 bis), rinviando per un nuovo esame. La Cassazione ha invece optato per il mantenimento delle condizioni attuali. Leggeremo con attenzione le motivazioni, ma quel che può dirsi sin d’ora è che una tale difformità di opinioni in punto di diritto relative al medesimo fatto sembra rappresentino il segnale di una incertezza di fondo nell’applicazione della discussa misura detentiva.

DUE LE POSSIBILI vie da seguire per restituire certezza nell’applicazione del 41 bis. La prima, una legge interpretativa che definisca meglio i confini e i casi in cui si può procedere a sottoporre ad un regime particolarmente duro un detenuto per determinati gravi reati. Una tale legge non potrebbe che essere rispettosa dei paletti posti dalle Corti italiane ed europee. Pertanto, non potrebbe estendere i casi senza correre il rischio di ledere i principi costituzionali e quelli europei inizialmente richiamati, semmai servirebbe per escludere queste misure in tutte le ipotesi in cui le ragioni di sicurezza e ordine pubblico possono essere perseguite in altro modo, con misure di controllo personale meno degradanti su chi è privato della libertà. Si può ragionevolmente dubitare che l’attuale maggioranza parlamentare voglia seguire tale strada.

L’ALTRA VIA È FORSE allora quella più efficace, ovvero un’interpretazione non solo costituzionalmente orientata della normativa vigente, ma anche rispettosa della ratio della norma. A quest’ultimo proposito è utile richiamare la storia e le finalità perseguite con il 41 bis. Fu introdotto in Italia nel 1986 come misura straordinaria e temporanea per impedire le rivolte nelle carceri promosse dai leader brigatisti. Nel 1992, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, si ritenne di dover adottare un’analoga misura per i capi mafia, ritenuti in grado di continuare a impartire dal carcere ordini e dirigere le proprie organizzazioni criminali.

È dunque l’effettiva e permanente pericolosità del condannato appartenente a organizzazioni ad alta potenzialità eversiva (terrorismo e mafia) che legittima la drastica limitazione della socialità all’interno delle mura del carcere e l’interruzione di ogni comunicazione con l’esterno.

NON INCIDONO INVECE direttamente sulla valutazione della modalità di esecuzione della pena né il giudizio sul reato commesso né la relativa condanna, che sarà scontata sino al termine. Ciò è tanto vero che la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per aver prorogato il carcere duro a Bernardo Provenzano, capo riconosciuto della mafia, condannato a plurimi ergastoli, nel momento in cui, a causa del deterioramento delle sue funzioni cognitive, non poteva più essere ritenuto in grado di impartire direzioni e definire strategie.

SE QUESTA È LA RATIO della norma, ingiustificate appaiono le sospensioni delle normali regole di trattamento dei detenuti in tutti i casi in cui non sono rinvenibili o non sono più attuali le ragioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Tornando al caso Cospito, ma cercando di individuare una regola generale d’interpretazione costituzionalmente orientata nelle decisioni relative al carcere duro, c’è da chiedersi se il detenuto rappresenti attualmente un soggetto pericoloso (ancora) in grado di dirigere, indirizzare e promuovere azioni criminali da parte dell’organizzazione cui appartiene. Che azioni eversive, rivendicate dagli anarchici insurrezionalisti, vi siano state è un fatto, ma si tratta di comprendere se tali atti siano stati commessi «in nome» di Cospito, ovvero siano stati da lui organizzati e diretti. Solo nel secondo caso sarebbe giustificate le modalità particolarmente restrittive di esecuzione della pena.

LA TENDENZA, INVECE, all’estensione dell’applicabilità delle misure del carcere duro ai detenuti autori di gravi reati, essenzialmente perché non pentiti delle proprie azioni criminali, non sembra coerente con i principi costituzionali e le finalità rieducative, nonché con il divieto europeo di trattamenti disumani e degradanti. I detenuti per gravi reati dovrebbero comunque scontare la pena, ma a regime ordinario. Nessuno richiede infatti la libertà dei condannati, ma solo la conservazione del senso di umanità nella esecuzione della pena.