Ombre, passaggi poco chiari, forse addirittura un complotto all’interno della procura di Milano. Le 111 pagine con cui i giudici di Brescia motivano la sentenza di condanna a un anno e tre mesi (pena sospesa) a Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio nell’inchiesta sulla cosiddetta Loggia Ungheria tratteggiano un quadro a tinte molto fosche dello stato delle cose all’interno degli uffici investigativi milanesi.

LO SCAMBIO dei verbali con le dichiarazioni del consulente di Eni Piero Amara, secondo i giudici, sarebbe avvenuto con modalità «quasi carbonare» da parte di Davigo «appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale». In effetti la consegna di un file Word all’interno di una chiavetta Usb a casa del magistrato non è il massimo del protocollo. Così come la successiva (larga) divulgazione di questo file non appare in alcun modo consona a un consigliere del Csm, posizione che Davigo ricopriva all’epoca dei fatti.

Ad ogni modo, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza, tra Davigo e il pm milanese Storari si era venuto a creare «un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante», che però non si è sciolto durante il dibattitmento del processo, perché «non è stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all’epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa self made o non vi sia stato, invece, un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra».

IN OGNI CASO Storari «ha rappresentato all’imputato una situazione distonica rispetto a quella reale, facendogli intendere, contrariamente al vero, che vi fossero resistenze rispetto all’indagine che intendeva sviluppare». In altre parole, secondo Storari il capo della procura Francesco Greco non sarebbe stato entusiasta di indagare sul serio sulle dichiarazioni di Amara sulla presunta Loggia Ungheria.

Davigo, comunque, «non si è limitato ad accettare l’incontro quale atto di elementare cortesia e colleganza, ma ha cavalcato l’inquietudine interiore dell’interlocutore che si era rivolto a lui con circospezione essenzialmente per avere un consiglio. A fronte delle titubanze del pm, Davigo gli aveva fatto presente che al Consiglio superiore e, dunque, per traslazione ai singoli componenti, non è opponibile il segreto. In tal modo l’imputato ha indotto il collega a compiere un atto extra ordinem quale la consegna brevi manu di copia dei verbali secretati, benché in teoria, la strada maestra per investire il Csm della questione fosse, per sua stessa ammissione, quella di fare un plico riservato».

CON QUESTO atteggiamento, Davigo avrebbe allargato «in maniera indebita» la platea dei destinatari della rivelazione. I documenti infatti vennero dati anche all’intero ufficio di presidenza del Csm di allora, altri sei componenti del Csm e un paio di assistenti dei consiglieri, oltre al parlamentare 5 Stelle all’epoca presidente della commissione Antimafia.