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Il burqa che indossiamo noi uomini

In una parola

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 maggio 2022

Dopo una guerra durata vent’anni, dopo la fuga degli americani e dei loro alleati (tra i quali gli italiani) tanto precipitosa quanto incredibilmente non preparata, dall’Afghanistan continuano a arrivare brutte notizie.

L’ultima è che, nonostante le «promesse», il potere talebano torna a imporre alle donne l’uso del burqa, o di altri veli che lascino scoperti tutt’al più gli occhi. Il capo di un inquietante ministero «per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù» ha detto che questo è necessario «perché le nostre sorelle vivano con dignità e in sicurezza».

Commentando la notizia sulla Repubblica di domenica scorsa Michela Marzano accusa l’Occidente – cioè noi stessi e stesse – perché non è in grado di fare i conti con la storia, «oppure li fa, ma poi si volta dall’altra parte, dimenticando molto velocemente tutto ciò che osserva o ascolta». Oggi «dopo l’enorme commozione di fronte alle immagini dello scorso agosto… rare sono le persone – dice Marzano – che si interessano ancora alla sorte delle donne e delle ragazze afghane».

Ho pensato due cose.

Forse l’Occidente, qualunque cosa si intenda con questa espressione, dovrebbe finalmente capire che non è in suo potere decidere per conto delle stesse donne afghane come intendere e vivere la propria libertà. E soprattutto che il metodo peggiore per «aiutare» chi vuole liberarsi è intervenire con le armi. Mi sembra di essere stato spettatore del fatto che nell’ultimo mezzo secolo le donne, e non solo in Occidente, hanno saputo conquistare una nuova libertà senza il bisogno di avere, per così dire, al loro fianco truppe corazzate.

Il secondo pensiero deriva dalla sensazione che nelle parole del ministro talebano «del vizio e della virtù» si nasconda un lapsus, come tutti o quasi, piuttosto significativo. Perché sarebbe più «sicura» una donna coperta dal capo ai piedi? Forse perché sarebbe più «difesa» da sguardi concupiscenti e potenzialmente aggressivi che, vedi caso, potrebbero venire dai «fratelli» del succitato ministro, e forse da lui medesimo?

Certo sono sacrosante, e dovrebbero aumentare, le iniziative – non armate se non di buone intenzioni e di capacità di relazione – a favore delle donne di quel paese (come di molti altri). Ma il problema maggiore sono i maschi di quel paese (come di molti altri).

Ecco il pensiero: il burqa più inaccettabile e pericoloso è quello, invisibile ma intessuto nei corpi e nelle menti, che impedisce ai maschi di percepire bene non solo ciò che li circonda (a cominciare proprio dalle loro «sorelle») ma soprattutto sé stessi e i propri comportamenti.
Gli integralisti talebani certo mi sembrano un tremendo caso limite. Ma pezzi di spesso tessuto e fitte retine davanti agli occhi resistono anche in noi uomini «occidentali».

Ho partecipato insieme alla psicoterapeuta Marina Valcarenghi a un incontro sulla violenza maschile contro le donne organizzato a Pesaro dall’associazione Percorso donna. Ho proposto l’ipotesi di un nesso tra la violenza sessuale maschile e la violenza bellica, debitamente corredata di stupri, che ora riempie tutti gli spazi dell’informazione.

Valcarenghi ha citato le tesi dello psicologo Luigi Pagliarani: violenza e guerra sono una «elaborazione paranoica del lutto». Se in un conflitto – di per sé inevitabile – non viene riconosciuta la nostra ragione, proviamo un senso di perdita, un lutto appunto, che ci sgomenta. La reazione cresce e deflagra.

La cosa più difficile, vincendo le barriere che limitano lo sguardo, è comprendere che non tutte le differenze sono conciliabili.

Non in tutti i casi è possibile una «mediazione». Certe differenze, tanto più radicali, dobbiamo imparare a accettarle.

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