Il Brasile di Paulo Freire
Intervista Parla Frei Betto, il frate domenicano, teologo della liberazione, educatore e militante politico. «A settembre, saranno 100 anni dalla nascita del pedagogista e teorico: l’educazione popolare può ancora rendere gli oppressi protagonisti della scena sociale»
Intervista Parla Frei Betto, il frate domenicano, teologo della liberazione, educatore e militante politico. «A settembre, saranno 100 anni dalla nascita del pedagogista e teorico: l’educazione popolare può ancora rendere gli oppressi protagonisti della scena sociale»
Il frate domenicano che si ribellava alla dittatura militare e fu fatto prigioniero negli anni Settanta oggi è educatore, militante politico, teologo della liberazione, scrittore. Frei Betto, uno dei maggiori intellettuali del Brasile, ci rende testimoni di percorsi storici e della necessità politica dell’educazione popolare ispirata da Paulo Freire, come metodo di superamento dell’ideologia del capitalismo.
Le prime esperienze di educazione popolare in Brasile sono sorte dai movimenti di resistenza contro la dittatura militare. Anche il carcere divenne un luogo di sperimentazione. Che memoria ha di quell’epoca?
Nel mio caso, ho trascorso quattro anni di prigionia, due con i carcerati politici e due con quelli comuni. Con i detenuti comuni abbiamo fatto esperienze di educazione popolare mediante il teatro, i circoli di lettura, l’artigianato e la pittura. Già al tempo, ci ispiravamo alla metodologia ideata da Paulo Freire. A settembre prossimo, ricorreranno i cento anni dalla sua nascita ed è giusto ricordare come l’educazione popolare, da lui introdotta, abbia ancora intatte le potenzialità di rendere gli oppressi protagonisti sociali e politici. Credo che sia anche merito di Paulo Freire se, in un paese elitario come il Brasile, dove i banchieri sono perfino più ricchi di quelli europei, un sindacalista metallurgico, come Lula, sia diventato presidente della Repubblica, eletto per due mandati. Grazie a Freire, molti leader popolari sono diventati importanti protagonisti politici. Attualmente, continuiamo a lavorare con il suo metodo, più o meno apertamente, ma non tutti si rendono conto della qualità di questo approccio.
Quale aspetto, in particolare, della pedagogia di Freire si è rivelato il più utile?
Partire dal contesto degli educandi, come faceva Freire nell’alfabetizzazione mediante le cosiddette parole generatrici che emergevano da un processo dialogico basato su situazioni concrete. Si iniziava da lì e dalla narrazione dei carcerati, perfino da quali crimini avevano commesso. Evidentemente, non tutti erano disposti a parlare, ma alcuni descrivevano anche dettagliatamente e funzionava quasi come una terapia di gruppo. Erano impressionanti gli effetti, nei gruppi di teatro, di quella metodologia che contestualizzava la loro vita, stimolando ognuno a riflettere sulle proprie azioni, le conseguenze e le cause. Ho rielaborato le analisi indotte da Paulo Freire anche quando sono uscito dalla prigione e ho iniziato a lavorare coi movimenti popolari. Con i detenuti, le comunità di base, i sindacati, la pastorale operaia, è importante superare la bassa autostima – molti non hanno avuto l’opportunità di studiare – promuovendo la coscienza di avere una cultura che spesso neanche astrofisici, chimici, grandi ingegneri, avvocati possiedono. Esistono culture distinte, ma socialmente complementari.
Il dialogo accresce le culture in modo dialettico, reciproco, facendo in modo che ognuno impari dall’altro…
Le masse hanno la percezione della vita come mero processo biologico: nasco, faccio parte di una famiglia, studio, mi sposo, ho figli, lavoro per sostenere la famiglia. Il capitalismo si basa su questo ciclo biologico di riproduzione economica che si riduce al produrre e consumare. L’educazione popolare «traghetta» dalla massa al popolo, dalla percezione della vita come ciclo biologico a ciclo biografico: faccio parte di una famiglia, che riguarda una determinata classe, inserita in un contesto, in un congiunto internazionale, che ci pone alcune questioni. Il dialogo è fondamentale per promuovere questa coscienza storico-biografica di un processo politico, sociale ed economico, che è la propria vita.
Che valore ha questo processo oggi?
Sono stato per due anni nel governo Lula (2003-2004) nel programma «Fame Zero» e oggi direi a malincuore che ci siamo distanziati dalla base popolare. C’è un principio freiriano molto importante per l’epistemologia: la testa pensa dove stanno i piedi, ossia quando cambiamo luogo sociale cambiamo anche quello epistemico. Uscire dal contatto diretto con le basi popolari e iniziare a convivere nei corridoi dei «palazzi», ha avuto come conseguenza la scarsa coscienza dell’importanza dell’educazione popolare. Penso che uno degli errori della sinistra latinoamericana sia stato quella di aver abbandonato quel lavoro con i settori più poveri. In Brasile si dice che la sinistra si unisce solo in prigione, ed è vero. Quando abbiamo conquistato governi democratico-popolari, abbiamo trascurato periferie, favelas, zone rurali. C’è stato uno scollamento che ha propiziato il fatto che gli spazi popolari fossero occupati da ideologie fondamentaliste, autoritarie, schiave del narcotraffico e di false credenze generate dal populismo.
Il fenomeno crescente del populismo ha dato spazio a una violenta persecuzione ideologica contro il pensiero di Freire…
Credo che lo strumento più brutale della destra per perseguitare il suo pensiero sia quello delle fake news e del negazionismo che si è diffuso fin da quando Bolsonaro – lo chiamo «Bolso-nero» – ha assunto la presidenza della Repubblica. Il negazionismo non riguarda solo il Covid, ma elementi della nostra storia, come il valore del pensiero di Paulo Freire o perfino l’esistenza della dittatura militare. Chi la nega ignora che Freire trascorse più di 15 anni in esilio o storie come quelle di Frei Tito, morto dopo terribili torture, e Frei Fernando che scrisse un diario dalla prigione su fogli di seta.
Il negazionismo è frutto dell’impoverimento culturale e dell’indebolimento di movimenti popolari, ma anche dell’ideologia del consumo, non è così?
Certo, questi processi di analisi critica sono fondamentali per comprendere l’essenza del sistema capitalista. Non si può prescindere dalla filosofia di Marx, – a mio avviso distorta da molti, soprattutto negli aspetti religiosi – nell’interpretare criticamente il capitalismo aprendo le finestre per il suo superamento. Ci sono tentativi di umanizzare, migliorare il capitalismo, ma sono intra-sistemici ed è come carezzare i denti dello squalo, illudendosi di eliminarne l’aggressività. Il capitalismo è intrinsecamente disumano perché la priorità, il valore numero uno è l’appropriazione privata della ricchezza che offre la libertà a pochi di possedere molto e impedisce a molti di avere qualcosa. Se vogliamo cambiamenti concreti in America Latina bisogna tornare al lavoro di base dell’educazione popolare. La trasformazione avviene solo se i settori popolari si organizzano e si mobilitano per andare oltre questo sistema che genera povertà, miseria, fame, diseguaglianza, esclusione, con tutte le conseguenze dal punto di vista della distruzione umana e ambientale.
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