Il bilancino del ministro Giorgetti
La manovra finanziaria al vaglio del Parlamento ha generato una notevole discussione, oltre a costituire per i sindacati un obiettivo polemico. Prima di tutto chiariamo di che si tratta: la legge di Bilancio è uno dei principali atti del Parlamento, in cui vengono decise le politiche fiscali per l’anno seguente. Vale a dire le entrate (tassazione) e le uscite (le spese). Se le prime non coprono completamente le seconde (com’è normale) lo Stato contrae un deficit che andrà coperto con l’indebitamento pubblico.
Dato che le politiche fiscali sono sempre relative al pil – la tassazione è proporzionale alla ricchezza prodotta – tutti i documenti programmatici di bilancio hanno una larga parte di stime e previsioni sul trend futuro, che normalmente viene visto in maniera eccessivamente rosea – salvo le inevitabili smentite.
L’iter consiste in un processo complesso, che si compone di molti documenti. Il DEF di primavera dà degli orientamenti generali, la Nota di aggiustamento di fine settembre specifica ulteriormente, finché il disegno di legge di bilancio non viene esaminato e approvato dal Parlamento.
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La manovra, i rating e l’opposizioneAlmeno formalmente, dato che il Governo e la Commissione europea hanno acquisito un’importanza enorme. Con la subordinazione degli obiettivi della politica ai diktat della finanza, a cominciare dal governo del suo massimo pontefice, Carlo Azelio Ciampi, producendo un ventennio di austerità completamente trasversale ad ogni cambio di governo. Con la crisi del debito sovrano il cappio si è stretto ancora, con la Commissione che esercita una occhiuta vigilanza sui bilanci degli stati: guarda il DEF, guarda la bozza di bilancio e dà indicazioni correttive. Questa volta è accaduto altrimenti? Vediamo.
La bozza del bilancio per il 2024 è un provvedimento timido e anonimo. Diminuisce sia le entrate che le uscite, quindi riduce lo spazio politico sotto il controllo dello Stato. C’è la smania di diminuire le tasse, quindi riforma fiscale, taglio al cuneo fiscale (cioè alla tassazione sul lavoro, lasciando in parte qualcosa ai lavoratori, qualcosa alle imprese; di più a queste ultime). Le diminuzioni di spesa sono fatte con tagli lineari: cioè non si sceglie quale settore dovrà sopportare le carenze, ma si stabilisce un criterio anonimo. Alla fin fine è una manovra in perfetta continuità con quella di Draghi.
L’elemento decisivo è che la base lavoratrice del paese è stata falcidiata dall’inflazione dovuta ai prezzi dei beni energetici; a fronte di un calo così vistoso quali risposte ci sono? Poche. Nel caso delle pensioni per esempio, la perdita del potere d’acquisto viene compensata ma solo sotto la soglia di 2254,96 € (lordi, si badi bene) al 100% (della perdita dovuta all’inflazione stessa). Per le varie fasce superiori la restituzione diventa sempre inferiore, fino a sopra 5637,4 consistente solo del 22%. Il problema è che la finanziaria impostata da Draghi faceva esattamente lo stesso, salvo l’ultima fascia che riceveva un po’ di più (il 32% rispetto al 22%).
Dobbiamo concluderne che il provvedimento nella congiuntura attuale è del tutto inadeguato per fronteggiare le ricadute sui lavoratori. Ma la legge di Bilancio è tanto lo specchio del governo che la costruisce, quanto delle influenze esterne a cui sceglie di sottostare. I parametri di Maastricht erano stati sospesi nel 2020 e ferve la discussione sulla loro reintroduzione l’anno prossimo.
Non sappiamo ancora a cosa porteranno le negoziazioni, ma sicuramente i punti cardine dell’impianto attuale non verranno abbandonati, nonostante le fervide speranze sulla “svolta” della Ue. A dispetto di tutte le professioni di antieuropeismo la maggioranza di Meloni ambisce evidentemente a conformarsi al panorama di tale ritorno. Sarebbe bene tuttavia inquadrare compiutamente il problema nei termini strutturali, cioè dei vincoli oggettivi della Ue e non della soggettiva volontà del governo in carica. Altrimenti, come in questo caso, le possibili variazioni vanno ponderate col bilancino. Proprio un bilancino.
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