Il Bangladesh italiano oltre Tarvisio: incentivi e paghe da fame
I costi della delocalizzazione Nel rapporto della campagna Clean Clothes Campaign i marchi del Made in Italy coinvolti
I costi della delocalizzazione Nel rapporto della campagna Clean Clothes Campaign i marchi del Made in Italy coinvolti
In Serbia, alle porte di casa nostra, la soglia di povertà per una famiglia di quattro persone viene calcolata a 256 euro. Ma il salario medio netto di un lavoratore dell’industria del cuoio e delle calzature arriva a 227 e a soli 218 nell’industria dell’abbigliamento. Se poi viene applicato il salario minimo legale netto, siamo a 189 euro. È la politica di incentivi che Belgrado ha deciso di applicare a diversi settori industriali per rilanciare l’economia e attirare investimenti. Regali alle aziende straniere, tra cui molte italiane, formalmente pagati dallo Stato ma di fatto dai lavoratori.
Qualche nome? Armani, Burberry, Calzedonia, Decathlon, Dolce & Gabbana, Ermenegildo Zegna, Golden Lady, Gucci, H&M, Inditex/Zara, Louis Vuitton/Lvmh, Next, Mango, Max Mara, Marks & Spender, Prada, s’Oliver, Schiesser, Schöffel, Top Shop, Tesco, Tommy Hilfiger/Pvh, Versace. E ancora Benetton, Esprit, Geox e Vero Moda. Solo questione di soldi?
Nel luglio scorso la stampa locale riferiva di lavoratrici costrette a indossare gli assorbenti per evitare di interrompere il lavoro per andare in bagno. L’episodio era riferito alla fabbrica Technic Development Ltd di Vranje, società controllata di Geox, marchio italiano di abbigliamento per uomo, donna e bambino, noto per le scarpe «traspiranti». La denuncia è costata il lavoro a Gordana Krstic, eppure quella storia non ha trovato eco sulla stampa italiana, un po’ distratta sulle questioni del lavoro delocalizzato.
Ma non siamo in Bangladesh o in Cambogia e la fabbrica in questione occupa 1.400 operai. Con salari netti medi (compresi straordinari e indennità) di 248 euro, meno della soglia di povertà. Straordinari che arrivano anche a 32 ore settimanali contro le 8 ammesse dalla legge. Sono i conti della moda.
Se sappiamo queste cose è perché un gruppo di attivisti della Clean Clothes Campaign (in Italia Abiti puliti) ha appena pubblicato un rapporto sui salari e le dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-est Europa. Non solo Serbia: in Ucraina, nonostante gli straordinari, alcuni lavoratori guadagnano appena 89 euro al mese dove un salario dignitoso dovrebbe essere di oltre 400. E anche se in Slovacchia si arriva a 374 euro siamo sempre sulla soglia del salario minimo legale, quello, per intendersi, che non serve a mantenere una famiglia e forse nemmeno una persona. Anche tra i clienti di queste fabbriche ci sono marchi globali come Benetton, Esprit, Geox, Triumph e Vera Moda.
Più di 1,7 milioni di persone lavorano nell’industria dell’abbigliamento-calzature in Europa centrale, orientale e Sud-orientale e spesso la differenza tra i salari reali e il costo della vita è drammatica in una situazione in cui – dice il rapporto L’Europa dello sfruttamento – l’attuazione della legislazione sul lavoro è «fallimentare», con un impatto negativo sulla vita di chi, più o meno direttamente, cuce i nostri vestiti e le nostre scarpe. Per questi marchi, dice il rapporto, i Paesi dell’Europa orientale sono paradisi per i bassi salari.
E anche se molte firme della moda enfatizzano l’appartenenza al Made in Europe, cioè con condizioni di lavoro eque, molti lavoratori «vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose, straordinari forzati, indebitamento». I salari minimi legali in questi Paesi sono attualmente al di sotto delle loro rispettive soglie di povertà e dei livelli di sussistenza. Le conseguenze, dice la Campagna, «sono terribili. I salari bastano appena per pagare le bollette elettriche, dell’acqua e del riscaldamento in Paesi dove ai marchi che investono vengono praticati grossi sconti proprio sulle utenze. Per loro le pagano gli operai.
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