I veleni dell’occupazione a Tulkarem, la piccola Gaza
Reportage Un polo industriale dal nome beffardo, «Germogli di pace», sorto sui campi confiscati agli agricoltori palestinesi. Fabbriche altamente inquinanti spostate da Israele in Cisgiordania, dove si respira un’aria di pesticidi e rassegnazione. E l’unico diritto riconosciuto ai lavoratori è quello di firmare il proprio licenziamento
Reportage Un polo industriale dal nome beffardo, «Germogli di pace», sorto sui campi confiscati agli agricoltori palestinesi. Fabbriche altamente inquinanti spostate da Israele in Cisgiordania, dove si respira un’aria di pesticidi e rassegnazione. E l’unico diritto riconosciuto ai lavoratori è quello di firmare il proprio licenziamento
Sono le tre del pomeriggio, l’aria sa di varechina, secca la gola e brucia le narici, due uomini sotto un sole cocente camminano con un secchio in mano su un campo di terra rivoltata e secca, lanciano semi a spaglio. Alle loro spalle a delimitare il terreno si erge un alto muro di cinta a protezione di un’industria chimica che spruzza nell’aria i suoi fumi bianchi che vanno a posarsi tutt’intorno.
Da quella parte del muro, Abed, 38 anni, lavora in una fabbrica di pesticidi. Ha quasi finito il suo turno e sta per uscire da una piccola porta, tutta arrugginita, incastonata tra alti blocchi di cemento armato e filo spinato, assemblati a ridosso di un edificio fatiscente, sulla cui parte superiore si intravedono dei teli mimetici militari utilizzati dai cecchini israeliani.
La bassa postierla si apre alle 16 e qualche minuto, Abed abbassa il capo per evitare di sbattere ed esce in strada, ha un pantalone con le tasche laterali, una maglia blu, stringe una busta di plastica con gli avanzi del pranzo, cammina con il capo basso verso la fermata dell’autobus.
Prima e dopo di lui escono ed entrano altri lavoratori per il cambio turno, controllati da tre guardie private israeliane armate di fucili automatici. Dopo il turno del mattino l’uomo sale su un minibus diretto alla sua casa di Tulkarem. Ha i capelli brizzolati dalle polveri, è un operaio e sa che di lì a poco sarà licenziato.
A PARTIRE DAGLI ANNI ’80 diverse fabbriche specializzate nel riciclaggio dei rifiuti, nella produzione di nylon, plastica, filtri per l’acqua, fertilizzanti e pesticidi sono state trasferite da Israele in Cisgiordania. Il governo israeliano ha fornito, nel tempo, incentivi fiscali alle aziende israeliane con un’attività che produce alti tassi di inquinamento affinché si trasferissero sui territori palestinesi.
A Tulkarem, città del nord-ovest della West Bank, definita la piccola Gaza – città resistente, con due campi profughi, Tulkarem e Nur Shams, soggetti a raid israeliani prolungati e sanguinosi – è stato creato un polo industriale altamente inquinante, costruito su terreni confiscati agli agricoltori palestinesi, formato da 12 fabbriche, chiamato Nitzanei Shalom («Germogli di pace»).
All’interno di queste fabbriche gli operai sono quasi tutti palestinesi. I loro contratti di lavoro, che firmano ma di cui non hanno copia, sono soggetti alle obsolete leggi giordane sul lavoro risalenti ai tempi del protettorato di Amman sulla regione e presentano tutele minime. Non garantiscono pensioni, congedi per malattia – ogni tre giorni di malattia certificata ne viene retribuito uno – o giorni di ferie sufficienti, solo 6 giorni all’anno. I lavoratori palestinesi hanno meno diritti e stipendi nettamente più bassi rispetto ai loro corrispettivi israeliani.
NEI CAMPI PROFUGHI della città è in corso un raid israeliano, la maggior parte dei negozi sono chiusi e di persone in strada non se ne vedono. In una strada anonima del centro, di fianco a un baracchino buio dove un uomo vende gli ultimi felafel della giornata, aprendo un massiccio battente in ferro si entra in un piccolo corridoio di un piano seminterrato che conduce all’interno della sede del Sindacato dei lavoratori di Tulkarem, dichiarato organizzazione terroristica da Israele in seguito agli attacchi avvenuti il 7 ottobre 2023. In una stanza vi sono operai seduti che bevono del tè, alcuni sono stati licenziati, altri hanno da poco finito il turno. Abed è seduto e fuma intensamente una sigaretta dopo l’altra.
Si respira rassegnazione, dopo il 7 ottobre l’area di Natzanei Shalom è stata dichiarata zona militare, le fabbriche hanno interrotto la produzione per un mese senza pagare gli stipendi e alla ripresa le ore e i giorni di lavoro sono diminuiti. Tutti gli operai proveniente dai campi profughi della città sono stati licenziati su ordine dello Shabak – i servizi segreti israeliani che si occupano degli affari interni – che ha proclamato una «Age regulation» che impedisce ai lavoratori sotto i 30 anni, agli uomini single e a coloro che non hanno figli di lavorare, per questioni di sicurezza.
Un uomo versa a tutti del caffè al cardamomo, Abed racconta che ha cercato di ottenere, nuovamente, una copia del suo contratto di lavoro ma gli è stato negato; lamenta la presenza di un nuovo manager israeliano che gira armato tra i lavoratori e li offende verbalmente tutti i giorni al minimo errore. Nel suo reparto è stato annunciato recentemente un taglio di personale, lui è nella lista, non ci si può opporre.
L’ARIA È DENSA DI FUMO, nessuno parla, le foto alle pareti ritraggono le lotte del passato con gli operai che scioperavano fuori dalle fabbriche con i fucili puntati addosso, il sindacato ora non ha più alcun potere.
Abed sarà licenziato di lì a poco, senza mai ricevere copia del suo contratto, costretto a firmare un foglio in cui dovrà rassegnare volontariamente le dimissioni.
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