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I vaccini al tempo dei Talebani. Ora è a rischio anche l’eradicazione della polio

I vaccini al tempo dei Talebani. Ora è a rischio anche l’eradicazione della polioVaccinazione a Kabul nell'ambito del programma Covax – Ap

Fronte sanitario Nel 2017, i casi di polio erano scesi in tutto a 22 nei due paesi. L’instabilità politica della regione ha però ostacolato le vaccinazioni, facendo risalire i casi a 176 nel 2019 e 140 nel 2020. Il caos attuale potrebbe allontanare ulteriormente l’obiettivo

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 20 agosto 2021

La presa del potere dei Talebani in Afghanistan potrebbe avere una ricaduta anche sulle campagne di vaccinazione nella popolazione. Sono particolarmente a rischio i programmi di vaccinazione contro il Covid-19 e soprattutto contro la poliomelite. Insieme al Pakistan, l’Afghanistan è l’unico paese al mondo in cui la malattia circola ancora.
Grazie allo sforzo della comunità internazionale, l’obiettivo dell’eradicazione globale della malattia è stato più volte a portata di mano negli ultimi anni.

Nel 2017, i casi di polio erano scesi in tutto a 22 nei due paesi. L’instabilità politica della regione ha però ostacolato le vaccinazioni, facendo risalire i casi a 176 nel 2019 e 140 nel 2020. Il caos attuale potrebbe allontanare ulteriormente l’obiettivo.

IN PASSATO, sia in Afghanistan che Pakistan le milizie islamiste locali (non solo talebani: anche l’Isis rimane attivo al confine tra i due paesi) hanno spesso ostacolato con le armi il lavoro dei sanitari. Gli attacchi contro i sanitari rappresentano un problema rilevante, dichiara Ahmed Al-Mandhari, responsabile dell’Oms nell’area mediorientale. «Tra gennaio e giugno 2021, 26 centri sanitari e 31 operatori sono stati colpiti, di cui 12 mortalmente». Secondo uno studio della rivista Lancet, un milione di bambini afgani non ha avuto accesso alla vaccinazione anti-polio dal 2018 a oggi.

L’ultimo attacco, appena due mesi fa, è costato la vita a cinque vaccinatori a Jalalabad. Altre tre operatrici erano state uccise in aprile. Nonostante le accuse della polizia, i Talebani avevano preso le distanze dagli attacchi. Con la diffusione della pandemia di Covid-19, infatti, gli “studenti” sembravano aver assunto posizioni più moderate.

I TALEBANI HANNO COLLABORATO al contenimento del virus e accettato il cessate-il-fuoco nelle regioni colpite dall’epidemia e l’intervento di agenzie sanitarie internazionali nei territori da loro controllati. In gennaio, avevano dato il loro assenso all’avvio di una campagna di vaccinazione assistita dal programma Covax dell’Oms, che avrebbe dovuto garantire la vaccinazione del 20% dei 38 milioni di afgani. Finora sono arrivati solo 5 milioni di dosi, un terzo di quanto promesso, e solo l’1,9% della popolazione ha ricevuto almeno una dose.

Come altri impegni pubblici dei Talebani, anche questo andrà verificato. I primi segnali non incoraggiano. Nella provincia orientale di Paktia, sarebbe stato chiuso il servizio di vaccinazioni dell’ospedale regionale. I sanitari internazionali finora sono rimasti sul campo. «C’è un dialogo in corso, siamo piuttosto ottimisti» ha detto Mustapha Ben Messaoud, capo delle operazioni dell’Unicef in Afghanistan sulla ripresa delle attività. Ma è chiaro che le campagne subiranno un rallentamento.

L’opposizione ai vaccini ha sia ragioni religiose che politiche. In molti vaccini vengono utilizzati componenti derivati dal maiale, e perciò vietati dal Corano. I miliziani hanno anche alimentato teorie del complotto – diffuse in mezzo mondo e non solo tra i musulmani – secondo cui i vaccini conterrebbero ormoni sterilizzanti mirati all’estinzione della popolazione.

INOLTRE, GLI OPERATORI SANITARI, soprattutto se impegnati nelle campagne di vaccinazione porta a porta, sono stati accusati di spionaggio al servizio di potenze occidentali. Questa diffidenza si è rafforzata soprattutto dopo l’uccisione di Osama bin Laden a Abbottabad, in Pakistan. I servizi segreti pakistani scoprirono infatti che per ottenere il Dna del capo di al Qaeda era stata organizzata una finta campagna vaccinale anti-epatite B, che aveva consentito a un medico collegato alla Cia di entrare nella casa-rifugio.

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