Nell’ultima riunione di febbraio, il consiglio direttivo della Bce aveva annunciato di voler «aumentare i tassi di interesse in misura significativa a un ritmo costante e a mantenerli su livelli sufficientemente restrittivi», in modo da «assicurare un ritorno tempestivo dell’inflazione al suo obiettivo del 2% nel medio termine».

Previsione per marzo: un altro aumento di 50 punti base. Mettendo anche nel conto il rischio di un severo rallentamento dell’economia (o di una vera e propria recessione). Un prezzo da pagare, secondo i falchi di Francoforte, nonostante l’inflazione non sia figlia di un eccesso di domanda.

IN QUESTA CROCIATA, tutta l’attenzione, fino ad oggi, è stata in pratica rivolta alle principali variabili macroeconomiche (domanda, consumi, investimenti, occupazione). Ma adesso dagli Stati Uniti giunge un messaggio inatteso per i decisori delle banche centrali: gli alti tassi di interesse possono arrecare danni anche al sistema bancario. La variabile che non era stata considerata.

È vero che le banche guadagnano di più se prestano il denaro ad un costo più elevato (ne sanno qualcosa sia le imprese che i cittadini con mutui a tasso variabile). E che con tassi alti i clienti ricevono di più per i loro depositi.

Ma che succede se una banca è costretta a vendere massicciamente le obbligazioni che ha in pancia (rimborso dei clienti), nel frattempo svalutate proprio a causa della politica degli alti tassi e del drenaggio di liquidità da parte delle banche centrali? Quello che è accaduto in America con la Silicon Valley Bank: buchi di bilancio e sfiducia di investitori e correntisti.

UN PROBLEMA che certamente irromperà nella riunione del bureau di Eurotower in programma per domani. Dove si annuncia un confronto teso tra i rappresentati del blocco nordico e quelli dei paesi mediterranei.

«Anche se la politica monetaria ha finora avuto successo nello stabilizzare le aspettative, la grave situazione geopolitica rende molto difficile prevedere i futuri andamenti macroeconomici», ha dichiarato la settimana scorsa il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, concludendo: «La politica monetaria dovrà quindi continuare a muoversi con prudenza, facendosi guidare dai dati che via via si renderanno disponibili, senza mettere a rischio la stabilità finanziaria e minimizzando gli effetti negativi sull’ancora fragile ripresa». E ancora non c’era lo sconquasso delle banche americane.

D’ALTRA PARTE, per quanto si voglia insistere sulla «solidità» delle banche europee, non è da trascurare il fatto che le stesse abbiano i bilanci gonfi di obbligazioni pubbliche. Sono 35, secondo JP Morgan, gli istituti del Vecchio Continente esposti al rischio di un corto circuito tra innalzamento dei tassi e tenuta del valore dei bond. Vale anche per l’Italia. Le nostre banche hanno in cassaforte titoli di stato per un valore di oltre 410 miliardi di euro. Tanto. Forse anche per questo si guarda al Belpaese come ad un caso da tenere sotto osservazione.

I mercati, intanto, sembrano voler puntare su un ridimensionamento della stretta monetaria targata Bce. Per giovedì scommettono sì su un rialzo, ma non di 50 punti. Secondo Bloomberg l’ipotesi di un rialzo di mezzo punto ha solo il 50% delle possibilità. Meno delle possibilità che gli analisti danno ad un rialzo della stressa entità, il prossimo 22 marzo, negli Usa (66%).

La stessa Federal Reserve ha stimato recentemente che, a causa della svalutazione dei bond, le banche americane hanno già accumulato perdite per 620 miliardi di dollari. Per adesso perdite virtuali. Ma lo spettro della Silicon Valley Bank incombe. E questa crisi, a ben vedere, sta già facendo scuola.