Il mese scorso una dozzina di sindacati hanno firmato una petizione presentata a Washington per chiedere che l’amministrazione Biden si impegnasse per un cessate il fuoco. Nel documento presentato congiuntamente dalle parlamentari Cori Bush e Rashida Tlaib, si leggeva che i membri dei sindacati americani partecipavano al cordoglio per lo spargimento di sangue in Israele e Gaza. «Esprimiamo la nostra solidarietà con tutti i lavoratori, nel comune desiderio di pace e chiediamo al presidente Biden ed al Congresso di impegnarsi per una fine immediata all’assedio di Gaza, nella consapevolezza che non è possibile raggiungere la pace attraverso le bombe». Oltre alle parlamentari che avevano presentato un disegno di legge con lo stesso obbiettivo, hanno aderito i metalmeccanici della Uaw, elettricisti e postali, insegnanti e docenti universitari, ospedalieri, operatori turistici e molte altre categorie ancora. Era il 14 dicembre e la macabra conta delle vittime palestinesi era giunta a quota 18.700.

UN MESE DOPO, sono passati i 100 giorni di guerra e alle quasi 1200 vittime provocate dall’attacco di Hamas in Israele, si sono aggiunti 31.497 morti a Gaza e nei territori della Cisgiordania. Le adesioni alla petizione hanno superato quota 4.000 fra sindacati, sezioni locali e firmatari individuali (una cospicua eccezione rimane, per ora, la principale confederazione, Afl-Cio). Nel frattempo, Biden ha, a più riprese, espresso disapprovazione verso le azioni del governo Netanyahu. Come riportato dal sito Axios citando una fonte dell’amministrazione il presidente avrebbe espresso «immensa frustrazione» e starebbe «finendo la pazienza» con la politica israeliana. Non abbastanza apparentemente per desistere dalla continuata fornitura di armamenti. Il sostegno sul campo e dagli scranni dell’Onu è a sua volta fonte di crescente disapprovazione all’interno del partito democratico, in particolare nell’ala progressista e fra i più giovani – segmenti cruciali della coalizione di cui il presidente ha bisogno per sperare di poter essere rieletto.

PER QUELLE PROSPETTIVE, inoltre, i sindacati hanno un peso specifico fuori misura, anche dal punto di vista organizzativo. Il movimento labor l’anno scorso ha vissuto un momento di particolare fermento e successo, con importanti vertenze vinte dai creativi di Hollywood, dai metalmeccanici di Detroit e numerose altre categorie. Per Biden, autoproclamato presiedente «più filo sindacale di sempre», che a settembre era sui picchetti della Uaw in solidarietà con gli operai in sciopero, la pressione per la pace da parte dei sindacati potrebbe essere particolarmente determinante. A dicembre, Shawn Fain, presidente della Uaw, aveva definito i sindacati «una testa di ponte per la lotta ad ogni forma di odio, fobia, razzismo, sessismo, antisemitismo, omofobia ed islamofobia». «È ora che i nostri leader politici ci ascoltino e facciano il necessario per porre fine alla violenza». «Noi lavoratori stiamo indirettamente finanziando l’assistenza militare del nostro paese alla campagna di terrore di Israele», ha aggiunto Janvi Madhani, della United Electrical Workers. «È ora di unire le nostre forze – ed i nostri voti – in solidarietà incondizionata con la causa della libertà palestinese».

STANDO ai sondaggi, negli Usa si registra una chiara maggioranza a favore di un cessate il fuoco e di persone che auspicano un ruolo imparziale del paese a favore della pace, anziché il sostegno incondizionato ad Israele proclamato dal presidente all’indomani del 7 ottobre. Si moltiplicano anche le mozioni in questo senso votate da numerose municipalità, fra cui Detroit, Atlanta, Chicago, Denver, San Francisco e Minneapolis.

Per contrastare un’opinione pubblica poco caratteristicamente «sfavorevole», organizzazioni pro-Israele come Aipac (American Israel Public Affairs Committee) hanno annunciato contributi per 100 milioni di dollari agli avversari di esponenti progressisti come Bush, Tlaib ed Ocasio Cortez. Più in generale la controffensiva si basa sull’equiparazione di opposizione alla guerra e antisemitismo, una campagna attivamente promossa da organizzazioni filo-israeliane come la Adl (Anti Defamation League) per sopprimere l’opposizione, specie sui campus universitari. Il caso più eclatante in questo senso è stata l’udienza parlamentare costata il posto alle rettrici di UPenn ed Harvard ritenute troppo indulgenti nei confronti dell’antisemitismo (categoria in cui viene fatta rientrare ogni espressione di resistenza popolare palestinese).
Nella dichiarazione dei sindacati, si legge invece che tutte le parti «devono attenersi alla legge internazionale ed alla convenzioni di Ginevra per quanto riguarda la sicurezza dei civili».