Sasha Zavarov, che la Juventus portò a Torino per un pugno di dollari con l’input della Fiat mentre stava per cadere il Muro, al fronte non si è presentato. Sette anni fa, quando la Russia aveva già invaso la Crimea, il Maradona dell’Est – così era considerato prima dell’arrivo in Serie A – spiegò che mai avrebbe fatto guerra al paese che era il punto di riferimento dell’Urss.
Zavarov non ha ancora proferito verbo sull’invasione russa dell’Ucraina. Invece Igor Belanov e altri assi di quella fantastica nazionale, l’Unione Sovietica allenata dal colonnello Valeri Lobanovsky, hanno scelto di andare in trincea per difendere l’Ucraina dall’invasione putiniana.

INSIEME AVEVANO COSTRUITO un mito. Una di quelle squadre di cui la narrativa del calcio dovrà tener conto anche tra dieci, cento anni. Anche se non ha vinto un’edizione dei Mondiali o gli Europei, conta poco, nello sport conta solo il percorso, come quello dell’Olanda di Cruijff del 1974.

L’Urss che arrivò in finale agli Europei del 1988, sconfitta in finale proprio dagli olandesi dei tre milanisti, da Van Basten e da un gol che sfidò, vincendole, le leggi della fisica, ha fatto la rivoluzione. L’Urss del gioco collettivo, intenso, robotico, schemi esasperati, una condizione atletica non conosciuta in quell’era del calcio. Stese anche l’Italia di Vialli, Mancini, Zenga, allenata da Azeglio Vicini, a Euro 1988. Andavano al doppio degli avversari. I ritmi erano così intensi che qualche anno dopo uno degli eredi di quella nazionale, Andriy Shevchenko, ora impegnato a sostenere la causa della sua Ucraina, spiegò il criterio di selezione dei titolari di Lobanovsky alla Dinamo Kiev. In campo ci andava chi non vomitava dopo infiniti allenamenti in salita. Sheva non vomitò mai, o quasi.

ERA UNA NAZIONALE formata da ucraini, russi, bielorussi. Tutti sotto il cappello sovietico. Dell’undici titolare si sono perse le tracce del portiere, del guardiano della perestrojka Rinat Dasaev, un fenomeno, considerato l’erede del monumentale Lev Jascin. Si sono espressi pubblicamente contro la guerra all’Ucraina altri colossi di quell’Unione Sovietica, dall’attaccante Sergej Protasov, ora vice-presidente della federcalcio ucraina, al difensore centrale Kidiatullin.

IGOR BELANOV invece si è messo la divisa a Odessa, casa sua, oggetto delle mire russe. Tra bombe, morti, è saltata fuori una sua foto con altri soldati, fucili in spalla, finita subito in Rete, sui social.

La foto postata recentemente su Twitter da Belanov (il primo a sinistra)

Belanov è stato Pallone d’Oro 1986 (terzo sovietico dopo Jascin e Blokhin), una delle assegnazioni più discusse. Allora erano premiati solo gli europei, non era ancora aperto il voto ai sudamericani, sennò Belanov sarebbe stato anche lui concorde nella consegna del premio – senza neppure procedere alle votazioni – a Diego Maradona, dopo i Mondiali messicani vinti quasi da solo dall’immortale Diez, compreso il gol del secolo agli inglesi. Anche Belanov, come poi Shevchenko, divenne grande alla Dinamo Kiev di Lobanovsky che vinse la Coppa delle Coppe nel 1986. Fu una tripletta ai Mondiali che gli portò in dote il premio di France Football. Fu anche a un passo dalla Serie A, dal Genoa che l’avrebbe dato in prestito all’Atalanta, ma il Cremlino poi cambiò idea. È finito il Germania, al Borussia Moenchengladbach, fu mandato via perché trovato in possesso di vestiti rubati. Una storiaccia.

A ODESSA ORA RACCONTA di combattere contro l’invasore russo. Belanov ci è arrivato dopo anni di vita dissoluta, anzi autodistruttiva, anni di alcolismo. a Odessa ha aperto una scuola calcio, ha raccontato di essere sconvolto per questa guerra folle, lui, così orgoglioso di aver reso grande l’Urss, si è sentito in dovere di difendere l’Ucraina.

I figli del Colonnello Lobanovsky non sono i soli sportivi ad andare fisicamente in trincea in questi due mesi scarsi di conflitti. Pugili, campioni del mondo, Vitali Klitschko ex peso massimo e sindaco di Kiev, poi il fratello Vladimir, un manipolo di tennisti. Anche campioni di biathlon, ginnastica. Allenatori come Vernydub, tecnico dello Sheriff Tiraspol, dalla Transnistria alla Champions League, che prima della guerra ha paragonato Putin a Hitler. Tra i cestisti, anche Sasha Volkov, il primo sovietico a giocare nella Nba, agli Atlanta Hawks, dopo aver vinto l’oro olimpico a Seul 1988.

Alcuni hanno perduto la vita in battaglia. Nessuno ha fatto un passo indietro. Un sentimento collettivo,

 

Sergei Aleinikov, polmone dell’Urss allenata dal colonnello Lobanovsky, in azione contro l’Inghilterra durante gli Europei del 1988 (Ap)

 

«Sono contrario alla guerra e non posso accettare che vengano gettate bombe e missili sui civili e sui bambini qualsiasi sia la ragione che abbia spinto la Russia ad invadere l’Ucraina», ha detto a pochi giorni dal via all’invasione russa Sergei Aleinikov, ex Juventus, il polmone di quell’Urss. Bielorusso, vive in Italia da anni, dopo la Juventus è passato al Lecce, si è detto concorde anche sulla scelta degli sport di squadra di estromettere i club russi e bielorussi dalle competizioni internazionali, perché lo sport va a braccetto con la politica.

ALEKSEJ MIKHAILICHENKO spesso era la cerniera di centrocampo in quell’edizione dell’Unione Sovietica, assieme ad Aleinikov. Lo storico scudetto della Sampdoria nel 1991 è anche roba sua, in Italia è stato anche alla Roma. Ora è a Kiev, in guerra. Si è arruolato con il figlio, Aleksej junior. Senza addestramento militare. «Io e mio padre non potremmo mai pensare di andar via da Kiev in questo momento – ha spiegato a un quotidiano britannico il figlio di Mikhailichenko», stiamo pensando di portare con noi anche mio fratello minore, 17 anni, è pericoloso ma non possiamo voltare le spalle al nostro paese».