Alcune centinaia di familiari degli ostaggi hanno manifestato ieri pomeriggio in prossimità della Knesset, il parlamento israeliano, esortando Netanyahu a darsi da fare per l’immediato rilascio degli oltre 240 ostaggi. Poco dopo, sempre alla Knesset, i rappresentanti delle famiglie sono stati ricevuti da alcuni membri dell’opposizione tra cui il leader Yair Lapid, Mansour Abbas della Lista araba unita (Ra’am) e Merav Michaeli del Partito laburista.

SEPPUR TIMIDAMENTE si vanno moltiplicando anche le iniziative di solidarietà grazie al contributo di associazioni come Standing Together che da alcuni giorni organizza incontri di partnership in diverse città del paese. All’evento misto di sabato sera a Haifa sono giunti in 700 tra arabi ed ebrei per confrontarsi e porre le basi per un futuro di pace, ma soprattutto di un domani condiviso. Del resto, come ha affermato in un’intervista al canale 11 Maoz Yinon, i cui genitori hanno perso la vita il 7 ottobre presso il moshav Netiv Haasara, «la guerra non sarà mai una risposta». Maoz è tra i fondatori della catena di ostelli Abraham Hostel le cui sedi da un mese fungono da casa per molti sfollati del sud che vi trascorrono le giornate sostenuti e coccolati da generose iniziative di volontariato in un’atmosfera familiare.

LA CORSA AL VOLONTARIATO è stata probabilmente la risposta più significativa e commovente della società israeliana al massacro del 7 ottobre, ma non è la sola. Quattro settimane dopo l’inizio del conflitto scatenato dai miliziani di Hamas è evidente che le risposte al trauma da parte israeliana sono molteplici, come le conseguenze che ne derivano. Vediamone alcune.

Già nei lunghi mesi delle manifestazioni contro la riforma giudiziaria il numero di israeliani orientati alla relocation, ovvero al trasferimento all’estero, non ha smesso di salire, complice la possibilità di lavorare da remoto ereditata dal covid. Così, nonostante le oggettive difficoltà nel reperire i biglietti, dovute anche alla sospensione dei voli da parte delle compagnie aeree straniere, molti sono i cittadini che hanno abbandonato il paese più o meno temporaneamente. I primi a partire sono stati i detentori di passaporti stranieri, ma le comunità ebraiche della diaspora hanno porto una mano a tutti, offrendo ospitalità e aprendo anche classi per i bambini israeliani rifugiati. A quanto emerge dalle interviste, tuttavia, la distanza geografica non a tutti ha regalato il sollievo sperato e, all’istinto di fare le valigie per mettere in salvo se stessi e i propri cari, si sono accompagnati senso di colpa e imbarazzo nei confronti di chi invece è rimasto.

NON A CASO ACCANTO ALL’ESODO si è assistito anche a un massiccio rientro di israeliani dall’estero, chi spinto dal desiderio di arruolarsi, chi di impegnarsi come volontario e chi semplicemente per far fronte all’ansia perché la guerra vissuta da lontano attraverso le notizie e il telefono non è per forza meno logorante. Dopo l’incremento degli episodi di antisemitismo in tutto il mondo non sono pochi anche gli ebrei che, temendo per la propria incolumità, scelgono di trasferirsi ora in Israele nonostante la guerra, in particolare dalla Francia. Lo stesso ministero degli Esteri israeliano, del resto, ha diffuso un comunicato nel quale sconsiglia gli israeliani di recarsi all’estero se non per reale necessità e adottando le dovute precauzioni. Ma se nella prima metà dell’anno gli israeliani erano impegnati ad accaparrarsi un passaporto straniero, dal 7 ottobre la scelta ricade soprattutto sul porto d’armi. Sono infatti oltre 175mila le richieste presentate nelle scorse settimane anche da molte donne che affermano di non sentirsi più sicure nelle loro case. Lo stesso governo ha previsto numerose facilitazioni anche in base alle zone di residenza, ma la prospettiva e i rischi della corsa all’arma da parte della società civile sembrano essere fin troppo sottovalutata.

NEL FRATTEMPO LE UNIVERSITÀ israeliane hanno rimandato l’apertura dell’anno accademico ai primi di dicembre, ma nei corridoi si parla di annullare l’intero semestre. Sui banchi sono tornati solo gli studenti delle scuole di psicoterapia che purtroppo sembrano essere gli unici con un futuro lavorativo assicurato.