I marchi latitanti del Bangladesh
A 11 anni dalla strage nella Tazreen Fashions Lavoratori e lavoratrici del settore tessile ricordano le 112 vittime e chiedono salari dignitosi. Nell’indifferenza degli acquirenti occidentali
A 11 anni dalla strage nella Tazreen Fashions Lavoratori e lavoratrici del settore tessile ricordano le 112 vittime e chiedono salari dignitosi. Nell’indifferenza degli acquirenti occidentali
«Mia sorella Amina Begum e suo marito, Nozur Islam. Loro figlio Nayan e sua moglie, Munira. Ho perso quattro famigliari nell’incendio. Io sono rimasta ferita, ma sono sopravvissuta». Rehana Akter mostra la cicatrice sul braccio, si sistema il velo colorato e riprende a raccontare la sua storia. «Ho 32 anni e ho lavorato sin da quando era una bambina. Ma da quel giorno lì non riesco più a farlo come prima».
QUEL GIORNO LÌ, il 24 novembre 2012, Rehana Akter si trovava all’interno dell’edificio di nove piani che si staglia di fronte a noi, alle spalle di centinaia di lavoratori e lavoratrici stretti gli uni alle altre. Volti seri, bandiere rosse, pugni alzati, issano cartelli che recitano «Mai più Tazreen» e «Per un salario dignitoso». Alcuni bambini tengono delle corone di fiori. Piccoli gruppi di manifestanti avanzano marciando e lanciando slogan. Alle loro spalle, le foto di decine di martiri. Sui lunghi stendardi, ciascuno per ogni sigla sindacale, richieste simili: «Giustizia e risarcimenti». Il volto di un uomo, Delawar Hussain, è incorniciato da un cappio. C’è chi invoca la pena di morte.
Siamo a Nischintapur, un villaggio non lontano dalla cittadina di Ashulia, circa 50 km a nord di Dacca, nella cintura industriale della capitale bangladese. In quest’area, nell’arco di alcune decine di chilometri, si concentra una parte rilevante della produzione tessile. Vale l’85% dell’export e il 15% del pil, impiega il 40% della forza lavoro industriale e qui è conosciuta con un acronimo inglese: Rmgs, ready made garment sector: camice, t-shirt, indumenti prodotti a basso costo e bassissimi salari. Escono dalle fabbriche già impacchettati, pronti per essere trasportati al porto di Chittagong e da lì sui mercati di tutto il mondo. Acquistati dai grandi marchi europei e statunitensi, a volte viaggiano su grandi navi cargo già provvisti di cartellino del prezzo. In euro o dollari.
IL SALARIO DI CHI LI PRODUCE è invece in taka, la valuta bangladese. E tutti bangladesi sono i nomi dei 112 lavoratori morti nell’incendio scoppiato il 24 novembre 2012 all’interno dell’edificio di fronte al quale, in occasione dell’11mo anniversario, manifestano i lavoratori. È la fabbrica Tazreen Fashions, il cui scheletro appare in parte ancora annerito. «Non è stato un incidente, ma un omicidio collettivo, un vero e proprio crimine». Tapan Saha è il segretario generale della Textile Garments Workers Federation, parte di una galassia sindacale consolidata negli ultimi anni, ma ancora frammentata. Occhiali e barba ben curata, è convinto che «se il management dell’azienda avesse seguito i protocolli di sicurezza e rispettato il diritto sul lavoro, tutti quei morti non ci sarebbero stati. È stato accertato che c’è stata negligenza. Quel che manca è una sentenza in tribunale».
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Tra i ribelli di Camp VictoriaAll’amministratore delegato dell’azienda, quel Delawar Hossain che qualcuno vorrebbe veder condannato alla pena capitale e che, dicono qui, evita il giudizio a causa della collusione tra politica, imprenditoria, magistratura, vengono attribuite le responsabilità maggiori. «Quando è scoppiato l’incendio c’era così tanto caos e panico che non so neanche se sono saltata giù o sono stata spinta.
Comunque sia, ecco il risultato», ci dice Rehana Akter, che torna a mostrare la cicatrice sul braccio e lamenta seri problemi alla spina dorsale. Come lei, centinaia di lavoratori quel giorno non hanno avuto altra via d’uscita. «Il permesso di costruzione era per cinque piani e ne erano stati costruiti nove. Il cancello era sbarrato, le uscite di sicurezza bloccate», spiega Shahidul Islam Shobuj, uno degli organizzatori della protesta, leader del Garment Workers Unity Forum e coordinatore del Garments Sramik Odhikar Andolan, federazione sindacale che raccoglie 11 sigle diverse. «I lavoratori sono rimasti in trappola. Alcuni sono scesi di corsa al cancello principale, ma non sono riusciti a rompere il lucchetto e sono tornati su. Si sono gettati dal quarto o quinto piano. Molti sono morti così».
I FERITI E I SOPRAVVISSUTI come Rehana Akter chiedono giustizia, sostegno e risarcimenti appropriati. «Ci rimpallano come un pallone da calcio. Ma siamo noi il vero motore economico di questo Paese. Fatichiamo tutti i giorni per ottenere cosa?», chiede Akter. Che lamenta la latitanza degli acquirenti internazionali, i destinatari della lunga catena produttiva e commerciale del tessile prodotto in Bangladesh. «La Tazreen produceva per 16 compratori diversi. Marchi importanti, globali. Nel periodo dell’incendio lavoravamo per Wallmart. Ma nessuno di loro si è mai preso cura di me». Questa donna minuta e determinata chiede sostegno per la propria famiglia. E si unisce alla battaglia degli altri lavoratori e lavoratrici del tessile: «Siamo qui per commemorare le vittime dell’incendio ma anche per un salario dignitoso», ripetono tutti.
«CHE SUCCEDE? Succede che noi chiediamo un salario più equo, con un aumento da 8.000 taka (circa 68 euro) a 25.000 taka (circa 210 euro, nda), ma il governo e l’associazione degli imprenditori, la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association, vogliono darcene solo 12.500. Cifra che non copre l’aumento dei beni di prima necessità». E inferiore al salario minimo mensile di sussistenza stimato sia dal Bangladesh Institute of Labour Studies (che lo fissa a 33.368 taka, 280 euro), sia dall’Asia Floor Wage Alliance, una rete di sindacati e organizzazioni del lavoro asiatici (che lo fissa a 51.000 taka, 430 euro). Lo scontro va avanti da settimane. «Siamo scesi più volte a manifestare. La risposta è stata solo violenza e repressione: 3 uomini e 1 donna sono stati uccisi dalla polizia».
La loro morte non è bastata. Il 26 novembre l’annuncio: il nuovo salario minimo, che per legge viene rivisto ogni 5 anni, sarà di 12.500 taka. «Troppo poco per campare una famiglia», ripetono qui, davanti alla fabbrica Tazreen. Chiamando alle proprie responsabilità anche i marchi globali: «Sono loro a incassare i profitti maggiori. È tempo che si assumano le proprie responsabilità. E che tutelino i diritti dei lavoratori. A partire da quello a un compenso equo, dignitoso», sostiene tra gli altri Tepa. Che non ci sta a passare per burattino dell’opposizione, come sostiene la premier Sheikh Hasina, leader della Lega Awami, al governo ininterrottamente dal 2009 e alla ricerca di un quarto mandato nelle elezioni fissate per il 7 gennaio 2024 ma boicottate dall’opposizione capeggiata dal Bangladesh Nationalist Party.
IL PRINCIPALE PARTITO di opposizione, insieme ad altri minori, chiede le dimissioni di Sheikh Hasina e la nascita di un governo a interim. La risposta è repressione, violenza istituzionale e militanti dell’opposizione sbattuti in galera. Mentre alle lavoratrici che protestano per un salario minimo dignitoso la lady di ferro asiatica manda a dire: «Attente: se perdete il lavoro in fabbrica dovrete tornare nei vostri villaggi. E lì non ce n’è».
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