A poche ore dall’annuncio dello scioglimento delle camere, e quindi di nuove elezioni legislative, Macron e il suo partito hanno proposto una lettura della politica francese che equipara le sinistre alle destre, considerate entrambe pericolose e destabilizzanti per il futuro del paese, invitando gli elettori a rafforzare il centro liberale come unica forza affidabile.

Nelle primarie per la scelta del candidato democratico in un collegio dell’area di New York, Hillary Clinton ha dichiarato il suo sostegno per George Latimer, un amministratore locale che piace anche alla destra, contro l’incombente Jamal Bowman, che invece ha il sostegno di Bernie Sanders e della sinistra del partito.

Allargando ulteriormente lo sguardo, sulla stessa linea di Macron e Clinton si sta muovendo anche Keir Starmer, leader di uno dei più antichi partiti socialisti europei, che paragona l’attuale capo del governo, un conservatore, a Jeremy Corbin, suo predecessore alla guida del Labour.

La risposta all’interrogativo si trova nell’evoluzione dal liberalismo dopo gli anni Settanta. Un fenomeno che ha origine negli Stati uniti, quando la crisi del partito Democratico e l’affermazione dei Repubblicani (prima con Reagan e poi con George Bush) segna una frattura tra la vecchia sinistra tendenzialmente socialdemocratica e la nuova, che riscopre l’individualismo libertario che appartiene da sempre alla tradizione politica statunitense.

Questo processo si rafforza con la vittoria dei Conservatori nel Regno unito, che Margaret Thatcher trasforma in un partito totalmente appiattito sugli interessi della finanza e dei ceti più abbienti.

Dopo il 1989, con l’indebolimento della base operaia del Labour, questo orientamento neoliberale diventa egemone, e finisce per condizionare in modo molto pesante anche gli orientamenti dei partiti della sinistra tradizionale. Sono gli anni della «terza via», quando sia i Democratici, sia i Laburisti propongono un nuovo patto sociale, in cui le istanze di redistribuzione della ricchezza, e di «moderazione» delle tendenze di «distruzione creativa» imposte dalla globalizzazione dei mercati finanziari vengono abbandonate.

La crescita sostituisce l’eguaglianza come obiettivo delle politiche dei governi guidati da progressisti e socialdemocratici, affidando al trickle down (lo sgocciolamento della ricchezza che si accumula al vertice del sistema produttivo) un simulacro, sempre meno efficace, di presidio delle misure di welfare.

Questo paradigma politico comincia a mostrare le prime crepe con la crisi finanziaria del 2008, e manifesta i suoi limiti più evidenti con la «policrisi» che ha un impatto sempre più pesante su ciò che rimane del modello socialdemocratico che aveva garantito un lungo periodo di relativa prosperità nel secondo dopoguerra.

Nella nuova situazione, il centrismo liberale diventa il custode dell’ortodossia finanziaria e degli interessi dei ceti più abbienti, che influenzano in maniera sempre più pesante la politica attraverso mezzi di informazione compiacenti.

Dopo l’invasione dell’Ucraina, e con l’ascesa della Cina come colosso economico (e, in prospettiva, militare) che contende agli Stati uniti il ruolo di potenza egemone sul piano internazionale, i liberali interpretano sempre più il proprio ruolo come quello di «gate-keepers» che devono sbarrare la strada a una sinistra che (prima con Corbyn, e poi con nuovi leader che si richiamano a uno spirito socialdemocratico rinnovato in Francia, in Spagna, e da ultimo anche in Italia) minacciano la stabilità del modello neoliberale.

Nella situazione attuale, i liberali non sono più il partito dell’equità, come ai tempi di Keynes o di Galbraith, ma sono i garanti del potere economico.

Naturale che guardino alle parti più pragmatiche della destra, che fanno capire di essere disposte a sostenere l’assetto neoliberale in una nuova versione, moderatamente protezionista e autoritaria, che tiene sotto controllo le istanze di redistribuzione della ricchezza e il nuovo attivismo di sindacati, organizzazioni studentesche e ambientaliste.

A farne le spese, negli ultimi mesi, sono stati i diritti umani dei palestinesi, sacrificati alla difesa di questo nuovo modo di intendere il liberalismo. Esito di un patto scellerato, che sta mettendo seriamente a rischio l’assetto democratico di paesi in cui si tenta di sostituire un bellicoso occidentalismo – ispirato a una versione radicale del «Cold war liberalism» – alla visione inclusiva e egualitaria della libertà che si era affermata dopo la seconda guerra mondiale.