Affinati: “I giovani immigrati ci insegnano a capire la guerra”
Intervista Parla lo scrittore Affinati, insegnante in una scuola di italiano per stranieri. "Ogni tanto porto i ragazzi milanesi da Mohamed e gli altri. A quell’età si intendono subito"
Intervista Parla lo scrittore Affinati, insegnante in una scuola di italiano per stranieri. "Ogni tanto porto i ragazzi milanesi da Mohamed e gli altri. A quell’età si intendono subito"
Con quali parole raccontare ai ragazzi l’orrore di Parigi? Domanda sbagliata se rivolta allo scrittore Eraldo Affinati: i “suoi” ragazzi già sanno. Sono loro che raccontano. Affinati è anche insegnante, di storia e italiano in un istituto professionale di Roma, e fondatore della Penny Wirton, una scuola di italiano per stranieri. Ci lavorano numerosi insegnanti volontari, le lezioni non prevedono classi, si privilegia il contatto a tu per tu con duecento adolescenti stranieri che hanno perso tutto, tranne la vita. Sono minorenni che scappano dalle guerre, giovani profughi scomparsi nelle statistiche. Stanno imparando e hanno tanto da insegnare ai “nostri” ragazzi, è quando si incontrano che si tiene la lezione più vitale di tutte. Si capisce dal titolo di un suo libro da che parte sta il prof Affinati, Elogio del ripetente (Mondadori, 2013). Con i più deboli.
A scuola si parla di Parigi?
Sanno perfettamente di cosa parliamo, sono adolescenti che fuggono dal terrorismo, dalla povertà e dalle guerre, molti di loro avrebbero potuto essere reclutati dai talebani in Afghanistan. Sanno già, dicono che questa è la tragedia da cui sono scappati. Molti ragazzi hanno perso i genitori.
Cosa accade quando incontrano gli studenti italiani?
Metterli in relazione con le nostre ragazze e i nostri ragazzi è l’obiettivo. Li porto spesso alla Penny Wirton e li trasformo in insegnanti di italiano, si conoscono e così cadono i pregiudizi. Marco e Giovanni capiscono Parigi quando ascoltano Mohamed. Gli adolescenti tendono a essere meno ideologici, fanno presto ad uscire dallo schema bene/male, amico/nemico. Un liceale romano e un egiziano se la raccontano subito, a 15 anni è più facile che a 30. Il confronto è utile per il migrante che si sente legittimato e per l’italiano che impara a conoscerlo direttamente.
I ragazzi italiani come hanno reagito alla strage?
Il rischio che si faccia confusione tra profugo e terrorista c’è, potrebbe prevalere un atteggiamento di paura e rifiuto degli immigrati. Non tutti i ragazzini però sono uguali, dipende dai genitori, dal contesto sociale in cui vivono, nelle periferie possono prevalere certi pregiudizi, abitare a Ponte Galeria o in corso Francia non è la stessa cosa. Proprio per questo penso che sia fondamentale mettere in relazione le persone, i ragazzi devono incontrarsi per raccontare la loro storia, per conoscersi.
Funziona sempre?
Sì. Basta poco. L’altro giorno Mohamed è venuto a scuola con una maglietta della Roma, abbiamo parlato di Salah e ci siamo detti che è lo stesso nome del terrorista ricercato in tutta Europa. La tragedia era presente nel discorso, ma ci siamo incontrati sulle cose che abbiamo in comune, in questo caso la passione per la squadra di calcio.
Gli adolescenti sono molto auto centrati e forse hanno già gli anticorpi per difendersi da questo orrore. Oppure servono parole nuove per raccontare quello che è accaduto?
I problemi degli adolescenti sono eterni, ma oggi c’è un problema specifico che si chiama esperienza. Hanno molte informazioni e una quantità di stimoli impressionanti ma spesso sono privati dell’esperienza diretta delle cose, manca il contatto umano, dietro a uno schermo si sentono invulnerabili e alle prese con la realtà rivelano tutta la loro fragilità. E la non conoscenza diretta genera pregiudizi. La scuola potrebbe giocare un ruolo importantissimo, ma è ancora strutturata su uno schema ottocentesco, lezioni frontali, voti, promozione, bocciatura.
Per tornare allo choc di Parigi e ragionare sui meccanismi inconsci di rimozione, non è che forse i ragazzini per gioco hanno già visto e rivisto troppe volte immagini di massacri virtuali?
Questi giochi violenti di simulazione rischiano di farti perdere il contatto con la realtà, una cosa è entrare in un bar e litigare, fare esperienza di un episodio violento, spaventarsi e poi ragionare su cosa è successo, un’altra è terminare un’esperienza con la scritta game over sullo schermo. Le relazioni umane vanno costruite, bisogna portare i ragazzi dentro i contesti, è uno spettacolo vedere come una persona si trasforma quando sente un’esperienza come vera. Accade anche per una lezione a scuola.
Intende dire che è sempre meglio giocarsela con l’incontro?
Proprio così. L’altro giorno Aziz, un ragazzo afghano, mi ha chiesto qualcosa che non riuscivo a capire. Voleva pregare e non sapeva dove mettersi, mi ha chiesto il permesso e abbiamo cercato insieme un luogo dove stendere il tappetino. Si è messo dietro la porta di un’aula rimasta socchiusa e io sono rimasto lì a proteggere la sua concentrazione. Questo episodio mi ha comunicato una sensazione molto forte, questo ragazzo ha espresso un desiderio e siamo riusciti a intenderci senza che intorno a noi ci fosse alcuna morbosità. Dobbiamo avere più fiducia nel confronto fra esseri umani, sapendo che a volte può anche essere rischioso. Ma è un approccio ineludibile, credo anche per battere il terrorismo.
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