I fogli persiani e moghul nei sogni di James Ivory
«An Arrested Moment: conversation with James Ivory» di Dev Benegal, video still
Alias Domenica

I fogli persiani e moghul nei sogni di James Ivory

Al Metropolitan di New York Nel 1956 il regista si imbatté per la prima volta in una miniatura indiana, ci vide riflesse le immagini de «Il fiume» di Jean Renoir... Una mostra sulla sua collezione
Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Linee tracciate con il pennino e infiniti tocchi di pennello intrisi d’acqua e colore, nelle antiche miniature persiane e indiane «illuminano» con la stessa intensità scene quotidiane e momenti straordinari, nella costante rincorsa tra sacro e profano. Ai colori ottenuti con pigmenti naturali, pietre preziose e semipreziose – dall’inchiostro dorato «hilkali» al bianco di piombo –, il compito di restituire la vivacità del colorito del volto di un’imperatrice moghul che fuma il narghilè, o passeggia nel giardino fiorito in attesa dell’amato, come pure la natura esuberante che circonda il cacciatore nell’atto di respingere la belva feroce o la seta cangiante di un sari in una prospettiva architettonica.

Sarà l’armonia dei dettagli ornamentali che si ripetono nello spazio e nel tempo o la narrazione fluida affidata alla gestualità dei personaggi, a rendere sempre affascinanti quei «piccoli gioielli»: ovvero le antiche miniature indiane, come le definisce James Ivory. La passione per l’India è cosa nota per il regista americano, che con Ismail Merchant, suo partner nella vita privata e nella professione, ha realizzato diversi capolavori, a partire da The Householder (Il Capofamiglia) del 1963, tratto dal romanzo di Ruth Prawer Jhabvala.

Il suo incontro con il subcontinente avviene proprio attraverso le pitture indiane: Ivory lo racconta nel cortometraggio, diretto da Dev Benegal, An Arrested Moment: conversation with James Ivory, realizzato per la mostra Ink and Ivory: Indian Drawings and Photographs Selected with James Ivory al Metropolitan di New York (fino al prossimo 4 maggio). Mentre girava il suo primo film Venice: Theme and Variations (1956), affascinato dai paesaggi veneziani anche attraverso lo sguardo dei pittori del passato, egli visitò la galleria Raymond Lewis di San Francisco con l’idea di acquistare un’incisione di Canaletto. Invece, s’imbatté nelle miniature moghul che il gallerista stava mostrando a un collezionista. Questa passione mai sopita è stata anche la sua personale chiave d’accesso all’India contemporanea. All’epoca conosceva ben poco dell’India, però ricordava il film Il fiume (1951) girato in technicolor da Jean Renoir. Scene come quella di Krishna e Radha danzanti in tutto il loro coloratissimo splendore sembravano rivivere in quei minuziosi dipinti che potevano essere tenuti nella sua mano. Nona caso il suo secondo film, The Sword and The Flute (1959), è un documentario sulla storia delle miniature indiane nelle collezioni U.S.A., in cui vengono evidenziate le peculiarità della scuola islamica moghul e di quella indù rajput.

Nel tempo Ivory ne ha collezionato un gran numero, tanto che nel 2010 è uscito il volume Indian Miniatures from the James Ivory Collection (a cura di Jeremiah P. Losty). Donatore al MET di numerosi pezzi tra disegni, miniature e fotografie, il regista è stato quindi invitato a collaborare nella selezione di opere per la mostra Ink and Ivory. Tra i disegni esposti, una sezione è dedicata alla tecnica «nim qalam» (mezza penna), creata dagli artisti persiani e moghul per conferire tridimensionalità al soggetto con fitte ombreggiature. La naturalezza dei ritratti dei nobili della corte – il maharaja Raj Singh di Sawar che riceve uno yogi in giardino (1714), il maharana Amar Singh II con le donne della «zenana» a Rajnagar (1707-’08) o Bahadur Shah Zafar, ultimo imperatore Moghul di Delhi (1855-’58) – si riflette anche nella descrizione delle ricorrenti fantasie floreali, come nella bellissima pagina del manoscritto De Materia Medica (1595 circa) con i tre germogli di bambù. Quanto alla presenza degli animali, reali e di fantasia, ecco spuntare elefanti, tigri, bufali, draghi e leoni in cui i contrasti chiaroscurali enfatizzano la muscolatura tesa nell’azione

Nella galleria 458 sono in mostra anche pezzi provenienti dalle collezioni del Met, tra arte antica e contemporanea, inclusa la miniatura How To Cut. The Front Of An Artillery Pantaloon (2008) dell’artista pakistano Imran Qureshi. In prestito dal Musée Guimet di Parigi, invece, quella pagina miniata del tardo Shah Jahan Album raffigurante un astrologo con uomini santi.

Anche la fotografia ha uno spazio significativo nella collezione Ivory: da lì proviene un ritratto in bianco e nero che il regista scattò a Calcutta al principe Bedar Bakht, pronipote del già citato Bahadur Shah Zafar. A testimonianza dell’amicizia tra i due ci sono anche la lettera e la poesia in urdu che il principe scrisse al regista il 3 maggio 1960. L’India sotto la corona britannica, 1858-1947, è un altro capitolo della storia, documentato da un certo numero di immagini fotografiche raccolte in vari album, tra cui quello dedicato alla residenza in stile palladiano del governatore generale dell’India a Hyderabad. A firmarlo, nel 1889, è Raja Deen Dayal, il fotografo indiano testimone degli ultimi sfarzi dell’epoca dei maharaja e dell’élite coloniale inglese.

Ma parlare d’India senza almeno un’immagine del Taj Mahal sarebbe proprio impensabile. Un inno all’amore perduto, il monumento bianco-avorio fatto erigere dall’imperatore Shah Jahan ad Agra, nel 1631-’48, in memoria dell’adorata consorte Mumtaz Mahal morta prematuramente. Anche John Murray lo immortala nel 1864. Nella sua stupefacente fotografia panoramica il cielo, al di sopra del mausoleo, grazie a una «mascheratura» in camera oscura, risulta eternamente limpido e radioso.

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