La genialità di Umberto Eco stava nella sua appassionata curiosità. Nell’agosto del 1985, l’edizione numero 38 del festival di Locarno, allora diretto da David Streiff, offrì a Umberto Eco la possibilità di curare una sezione chiamata Carta Bianca. Sette film scelti a titolo assolutamente personale e insindacabile. La sezione era sempre stata affidata a registi di fama, quella era la prima volta in cui il prescelto era un intellettuale senza rapporti diretti con il mondo del cinema. Solo l’anno successivo Eco approdò al grande schermo con la trasposizione de Il nome della rosa. Nei titoli in realtà è scritto non dal romanzo ma «dal palinsesto». Il perché lo ha spiegato Eco: «Un palinsesto è un manoscritto che conteneva un testo originale e che è stato grattato per scrivervi sopra un altro testo. Si tratta dunque di due testi diversi». Un modo magnifico per distinguere il romanzo dal film diretto da Jean Jacques Annaud e interpretato da Sean Connery e Christian Slater.

Essendo di Milano e in procinto di andare a Locarno per seguire il festival per conto di questo giornale mi venne chiesto di intervistare Umberto Eco. Il suo rapporto con il manifesto era cordiale, con lo pseudonimo di Dedalus aveva collaborato. Così, mi venne fornito il suo prezioso numero di telefono personale, di casa. Un po’ intimidito, composi il numero. Chi mi rispose si qualificò come qualcuno che lavorava lì, chiedendomi perché volessi parlare con Eco. Spiegai che avrei voluto concordare un’intervista per il manifesto. Con grande sorpresa il mio interlocutore cambiò leggermente il modo di parlare, ma soprattutto si era convinto a rivelarmi che era lui Umberto. Concordammo così che sarei andato a casa sua il giorno stesso. Quando arrivai mi ricevette con grande gentilezza, quasi con amicizia. Il manifesto era per lui una garanzia.

Purtroppo ho perso tutto, l’unica cosa che ho ancora e che rievoca quanto Eco mi aveva detto è il catalogo di Locarno in cui lui stesso spiega il criterio di scelta e le singole motivazioni. Questi sono alcuni stralci. «Indipendentemente dal loro valore artistico, ci sono state nella vita di ciascuno di noi alcune storie, alcune immagini che hanno sancito una certezza morale, creato o distrutto un mito, dato forma a un’idea. (…) Ho scelto quindi alcuni film che mi hanno suggerito qualcosa tra i sei e i vent’anni. Alcuni, che ho proposto, non sono stati ritrovati, per difetto di riferimenti. Forse non sono mai esistiti, me li ero creati io. Pazienza». Il tutto tra citazioni di Proust, della Divina Commedia illustrata da Dorè, di Buffalo Bill, di Chopin. Perché questo faceva parte del fascino del personaggio capace di spaziare tra alto e basso con inarrivabile maestria.

I sette film erano Ribalta di gloria («se mi sono occupato di comunicazioni di massa e di spettacolo è perché mi sono formato un’immagine mitica di Broadway»); L’eterna illusione («mi ricorda mio padre che mi costruiva giocattoli in cartone»); Ombre rosse («All’ arrivo del Settimo Cavalleggeri che libera la diligenza assediata, nessuna persona normale può resistere. È l’ essenza del piacere tragico e drammatico e se più tardi ho praticato lo Poetica di Aristotele è perché da piccolo ho amato Ombre rosse»); I fanciulli del West o Allegri vagabondi («Per il principio del “kairos” e cioè, nella retorica antica, del “momento giusto”. C’è un momento giusto per fare una scelta nella vita, un momento giusto per dire una cosa, un momento giusto per morire… Quanto tempo deve passare tra il momento in cui ricevi una torta in faccia e quello in cui ti pulisci lentamente gli occhi?»); Giorno maledetto («per la scena in cui Spencer Tracy monco di un braccio molla un manrovescio a un cattivo che lo aveva martirizzato per due ore di proiezione e lo fa volare per una decina di metri… un effetto cosmico, una catastrofe nel senso di René Thom»); Paisà («il coraggio e se volete l’eroismo è vero solo quando chi mostra coraggio ha paura e non ha studiato da eroe. Grande epopea di povera gente tra cose più grandi di loro»); L’invasione degli ultracorpi («insegna la diffidenza, ma anche a diffidare della sindrome “essi sono tra noi” di cui sempre soffriamo»).

Naturalmente la chiacchierata aveva trattato anche di molti altri film, creandomi un sacco di problemi, perché Eco li citava sempre riferendosi e ricordandosi i nomi dei personaggi, non degli attori. Allora non esisteva Internet e sbobinare quell’intervista e scovare in tempi strettissimi a chi corrispondessero i vari John e Mary fu, per me, un’autentica ma anche felicissima impresa. In chiusura Eco aveva scritto: «Cosa accomuna questi film? Nulla, se non il fatto che nella grande foresta dell’immaginario collettivo, ciascuno di noi si ritaglia i propri sentieri, e muore accorgendosi di averli disegnati quasi per caso».