Cultura

I fantasmi di Francia alla sfida del presente

I fantasmi di Francia alla sfida del presenteCopertina di «La Libre Parole», il giornale antisemita di Édouard Drumont in prima fila nelle accuse a Dreyfus

Geografie Un percorso di letture alla vigilia del voto presidenziale transalpino. La memoria del caso Dreyfus, il ritorno delle ombre coloniali, l’intreccio tra vecchio e nuovo razzismo. Lo storico Gérard Noiriel affronta con «Le venim dans la plume» (La Découverte), le radici della retorica «identitaria»: da Édouard Drumont a Éric Zemmour. In «L’affaire» (Bompiani) Piero Trellini rilegge in un’opera di non-fiction la vicenda del capitano accusato di spionaggio come l’annuncio di una contraddittoria modernità

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 9 aprile 2022

C’è stato un tempo, che oggi non potrebbe apparire più remoto anche se da esso ci separa soltanto un ventennio o poco più, nel quale il dibattito pubblico francese sembrava articolarsi in larga misura intorno ad un bizzarro neologismo, la lepénisation des esprits, vale a dire l’idea che ben al di là dei propri risultati elettorali l’estrema destra potesse conquistare le menti e i cuori dei francesi, l’anima stessa del Paese.

Alla vigilia di un voto, quello per decidere chi guiderà la Francia dal Palazzo dell’Eliseo nei prossimi cinque anni, in programma domenica, che per la seconda volta consecutiva, era già accaduto nel 2017, indica secondo tutti i sondaggi la possibilità che Marine Le Pen acceda agevolmente al ballottaggio contro il presidente in carica Emmanuel Macron, ma con percentuali in ulteriore crescita rispetto al già inquietante precedente, risulta chiaro come la conquista des esprits si sia in larga parte compiuta, costringendo la Francia a misurarsi di nuovo con i fantasmi più temibili del proprio presente come del proprio passato. Anche perché il volto della minaccia si è fatto nel frattempo plurale, ha assunto nuovi profili e ha messo in campo retoriche sempre più radicate nel discorso pubblico come nel mainstream della comunicazione.

UN’IMMAGINE SINTETIZZA con una certa forza quanto è accaduto nel frattempo e consente di definire i contorni della situazione. Il 22 marzo al Palais des sports di Parigi la rivista Valeurs actuelles, che nel nostro Paese sarebbe probabilmente definita di «centrodestra» ma che Le Monde non esita a etichettare come «il settimanale della destra radicale», ha riunito i candidati alle presidenziali delle «destre plurali» o esponenti dei partiti che li sostengono. Non solo Jordan Bardella, il giovane presidente del Rassemblement national di Marine Le Pen, ma anche Valérie Pécresse, che fu tra i consiglieri di Jacques Chirac e oggi presiede il Consiglio regionale dell’Île de France, in lizza per Les Republicains, il partito già guidato da Nicolas Sarkozy che riunisce neogollisti e liberali, in una parola la vecchia «destra repubblicana», e Éric Zemmour, il giornalista e conduttore televisivo che dopo una lunga carriera nei media conservatori, su tutti Le Figaro, è sceso in campo nella corsa per l’Eliseo. Tre candidati cui i maggiori istituti demoscopici assegnano una percentuale complessiva di intenzioni di voto compresa tra il 35% e il 45% del totale.

 

«La Libre Parole»

Il punto è che come segnalava già il titolo della kermesse parigina, ribattezzata senza ironia come le grand débat des valeurs, Le Pen, Pécresse e Zemmour sembrano in effetti condividere, o essere disposti a riflettere intorno ai medesimi «valori», riassumibili nella prospettiva della remigration, letteralmente espellere verso i Paesi d’origine persone divenute cittadini francesi a tutti gli effetti, rifiutare qualsiasi riconoscimento delle responsabilità, e delle colpe di cui la Francia si è macchiata nei confronti delle sue colonie o dell’Algeria, che prima dell’indipendenza era un dipartimento come gli altri della République, negare la nozione stessa di «violenza poliziesca», la cui consistenza viene invece testimoniata dalla costante lista di bavures compiute dagli agenti ad esempio nelle banlieue.

Allo stesso tempo, uno dei candidati, Zemmour, che ha costruito la propria popolarità grazie ad una serie di bestseller che descrivono la «decadenza» del Paese e che fin dal titolo evocano di volta «il suicidio» o «la malinconia» della Francia, ha condotto un’offensiva sistematica per ribadire come da Clovis ad oggi, il Paese abbia conservato un’«unità etnica, religiosa e culturale» ora minacciata dall’immigrazione di massa e soprattutto dall’Islam. Una linea applicata all’intera vicenda storica nazionale, da Richelieu a Clemenceau per concludere con la difesa d’ufficio del maresciallo Pétain e del regime di Vichy, che ha reso evidente il tentativo di mettere le mani sul passato per cercare di controllare il presente.

UNA STRATEGIA che lo storico Gérard Noiriel ha paragonato a quanto accaduto nella Parigi fin de siècle ad opera del propagandista antisemita Édouard Drumont, deputato e giornalista che dalle colonne di La Libre Parole, il giornale che aveva fondato nel 1892, fu il più strenuo accusatore di Alfred Dreyfus, il capitano alsaziano di origine ebraica accusato di tradimento e spionaggio a favore della Germania al centro del drammatico caso che scosse il Paese tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del nuovo secolo rivelando tutto il peso dell’odio antiebraico e la capacità di quel razzismo di sedurre e indirizzare una parte consistente delle scelte dell’opinione pubblica.

Tra i maggiori storici dell’immigrazione e direttore di ricerca all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, Noiriel affronta così in Le venim dans la plume. Édouard Drumont, Éric Zemmour et la part sombre de la République (La Découverte, pp. 240, euro 11) un tema decisivo che ha fatto anche da sfondo a questa campagna elettorale: ciò che oltre vent’anni fa un altro noto studioso transalpino, Michel Wieviorka, indicò fin dal titolo di una sua opera significativa, Lo spazio del razzismo (Il Saggiatore, 1996).

All’interno di una stagione di passaggio, segnata dalla crisi sociale come da quella delle forme tradizionali della rappresentanza politica, nonché dall’irrompere di nuovi strumenti di comunicazione, la diffusione della stampa quotidiana al debutto della Terza Repubblica, il passaggio dall’era della tv a quella dell’informazione e dell’intrattenimento digitali oggi, le traiettorie seguite nei rispettivi contesti da Édouard Drumont e Éric Zemmour sembrano porre interrogativi simili. Al centro di queste narrazioni tossiche, sottolinea Noiriel, una medesima struttura interpretativa della realtà: uno scontro centrale tra un personaggio che assolve al ruolo della vittima ed un altro che è designato come l’aggressore.

Per Drumont e Zemmour «la vittima è la stessa, si tratta della Francia, e a mutare è solo il volto dell’aggressore: l’ebreo opposto al cristiano, il semita opposto all’ariano nel primo caso», gli immigrati e in particolare i musulmani nel secondo. Resta, sullo sfondo, quella che Noiriel definisce come una «grammatica» comune che, stabilita alla fine del XIX secolo, continua a servire da supporto alle nuove campagne d’odio. «Tutte queste retoriche – segnala lo storico – si organizzano attorno ad un principio identitario che mette in scena non gli individui reali ma dei personaggi che si affrontano a partire dal presunto divario esistente tra “loro” e “noi”».

NON SFUGGE, nell’evocazione di una sorta di parallelismo tra Drumont e Zemmour, come tra la crisi di allora e la Francia odierna ferita da due anni di Covid dopo che il malessere sociale si era a lungo espresso attraverso la rabbiosa mobilitazione dei gilets jaunes, il carattere di sconvolgente archetipo che ebbe per la democrazia transalpina la persecuzione che colpì il capitano Alfred Dreyfus.

Una vicenda che Piero Trellini ha recentemente ricostruito in L’affaire (Bompiani, pp. 1372, euro 30), una monumentale opera narrativa di non-fiction che fa pensare per molti versi al lavoro di Antonio Scurati sulla figura di Mussolini. Nella vasta indagine proposta da Trellini emerge lo scorcio di un’epoca, per molti versi le radici della modernità stessa, tra il formarsi di un concetto di opinione pubblica che attraverserà poi il lungo Novecento, il ruolo controverso degli intellettuali in grado forse per la prima di porre quesiti decisivi alla società, il peso crescente della scienza nello spazio pubblico. Dreyfuss non è solo la vittima, ma anche lo schermo nel quale la società francese si osserva stentando a riconoscersi, sia tra i fautori della colpevolezza dell’ufficiale che tra i sostenitori dell’uomo.

Come ricorda Trellini, è questa una storia che «non contiene solo dreyfusardi e antidreyfusardi, esiste il grigio, l’opaco, lo sbiadito e il trasparente». L’antisemitismo è il fusibile che consente di mobilitare l’energia del risentimento che si è andata accumulando e che peserà a lungo sulla vita del Paese. In questo senso, «Dreyfus era un predestinato al sospetto»: per l’accusa «che gli stava per piombare addosso erano state determinanti la sua origine (superata dall’integrazione) e la sua religione (che non praticava). L’ossessione per le spie tedesche e per gli ebrei da poco arrivati nell’esercito trovò in lui il bersaglio perfetto. Il solo nome possibile da inserire nel centro».

Il tema delle divisioni della società francese e del peso che il razzismo continua a giocare come fondamento per mobilitazioni di massa nel segno del rancore è al centro anche di alcuni titoli apparsi nelle librerie parigine nelle ultime settimane. Da La France contre elle-même (Grasset, pp. 252, euro 20) del giornalista svizzero Richard Werly che ha ripercorso i territori che durante il Secondo conflitto mondiale segnavano il confine tra la Francia libera e la zona di occupazione nazista, a Marianne face aux faussaires (Albin Michel, pp. 198, euro 14) della scrittrice franco-senegalese Fatou Dioma che riflette proprio sull’incessante dibattito sull’«identità nazionale» che attanaglia da tempo la sfera pubblica transalpina, fino al volume che la storica Sylvie Thénault ha dedicato a Les ratonnades d’Alger, 1956 (Seuil, pp. 332, euro 23) che indaga il senso comune razzista dell’Algeria francese, pronto a trasformarsi in violenza come nel caso ricordato nel libro, che muoveva dall’idea, tornata tristemente d’attualità, che la natura «francese» dei luoghi fosse paradossalmente minacciata dalla presenza degli stessi algerini: un fantasma coloniale che continua ad agitare le notti della République.

DEL RESTO, che tali argomenti non facciano solo da sfondo alla campagna elettorale lo dimostra, tra i tanti elementi, il fatto che la Fondation pour la mémoire de l’esclavage abbia chiesto a tutti i candidati di rispondere a un questionario per chiarire le loro opinioni al riguardo: la legge del 2001 che porta il nome di Christiane Taubira, deputata socialista della Guyana e poi ministro della Giustizia con François Hollande, ha infatti riconosciuto la tratta degli schiavi e la schiavitù come crimini contro l’umanità. Sia Pécresse che Le Pen e Zemmour, oltre ad un altro candidato minore dell’estrema destra, hanno però deciso di non rispondere. Per loro il tema non esiste neppure.

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