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I dubbi della stampa in Libano: dalla crisi non si esce con l’Fmi

I dubbi della stampa in Libano: dalla crisi non si esce con l’FmiDistribuzione di aiuti alimentari ai poveri nella città libanese di Tripoli – Ap

Medio Oriente Dai media indipendenti libanesi una critica verso il sistema di privatizzazioni e i negoziati con il Fondo monetario internazionale per combattere la crisi economica e politica che da anni attanaglia il paese

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 26 gennaio 2022

Mentre continuano le manifestazioni a Beirut, per protestare contro l’inflazione che ha raggiunto livelli altissimi (un dollaro vale oggi circa 23mila lire libanesi), il paese sta lavorando alla ripresa dei negoziati con il Fondo Monetario Internazionale, interrotti nel 2020.

A ottobre dello scorso anno è stato formato, per portare avanti questi dialoghi, un comitato governativo che, secondo i media libanesi, sta lavorando per includere nel piano una serie di progetti di cooperazione tra i settori pubblico e privato, se non veri e propri piani di privatizzazione, come soluzione per rafforzare la valuta a beneficio dello Stato, e ricapitalizzare la Banca Centrale libanese con questa liquidità.

La notizia è stata trattata recentemente dal giornalista Ali Noureddeen sul sito web di Megaphone, una piattaforma multimediale indipendente in lingua araba. Nell’articolo, intitolato “Prima di essere ottimisti nei confronti del Fondo Monetario Internazionale”, Noureddeen mette in guardia verso l’altra faccia di questi accordi, definendo il Fondo uno strumento di dominio finanziario e politico.

Il giornalista cita l’esempio del Cile nel 1973, quando Pinochet, sostenuto dagli Stati Uniti, spodestò il governo di sinistra democraticamente eletto. Allora, scrive, era chiaro che l’Fmi stava supportando il governo del colpo di stato, visto che i finanziamenti a esso destinati nel periodo successivo alla presa al potere erano praticamente raddoppiati.

E le modalità con cui l’Fmi era entrato in scena erano in accordo con la direttiva economica imposta da Pinochet in quel periodo, che andava di pari passo con la repressione del movimento sindacale al fine di sopprimere tutte le tendenze che potessero dare priorità alla giustizia sociale.

E questo è solo un esempio – afferma il giornalista – delle molte vicende oscure che hanno valso all’Fmi la reputazione di istituzione internazionale che cerca di ingraziarsi i despoti con l’intento di imporre poi la sua dura agenda a livello sociale, nascondendosi dietro slogan come “rafforzare la sicurezza dell’economia globale” e “sostenere le politiche di correzione e riforma” mentre si mantiene molto lontano dagli interessi delle popolazioni locali. Per questo motivo l’Fmi insiste recentemente sulla necessità di “garantire il consenso locale” e il “coinvolgimento delle parti interessate” da questi piani.

Nel caso del Libano, Noureddeeen fa notare che il Fondo ha inserito tra le richieste negoziate nel 2020 quella di lavorare su una “rete di protezione sociale”, nel tentativo di dimostrare il proprio interesse per questo tipo di questioni, e afferma che azioni del genere sono state messe in atto anche in Tunisia, quando è stata richiesta la partecipazione dei sindacati ai colloqui con le autorità del paese.

Malgrado questi nuovi metodi di azione, però, non sembra che l’istituzione internazionale abbia cambiato le proprie metodologie di lavoro, soprattutto quando si tratta di raggiungere intese sui piani messi in atto da enti locali, anche a scapito della correttezza di questi piani o del modo in cui devono essere formulati.

Infatti, nonostante il Libano avesse adottato un piano finanziario ben definito, che era stato approvato al tavolo del gabinetto, quello stesso anno l’Fmi congelò i negoziati, giustificando questo gesto con la mancanza di comprensione interna sul piano, poiché sia la Banque du Liban che la Commissione Finanze e Bilancio si erano mostrate contrarie all’accettazione delle cifre offerte dal Fondo.

Noureddeen fa notare però che la Banque du Liban, in quella fase, non aveva l’autorità costituzionale o legale per porre il veto alle decisioni prese dal governo e le revisioni della Commissione Finanze e Bilancio non avevano alcun effetto giuridico.

Scrive inoltre: “Al momento, il governo libanese sta procedendo con le discussioni preliminari con l’Fmi, in preparazione alla fase di negoziazione formale. Oggi tutte queste trattative non presentano la minima trasparenza di fronte all’opinione pubblica e ai gruppi sociali interessati da questo piano, ma vanno avanti senza coinvolgere né l’una né gli altri nelle discussioni. Ciononostante, l’Fmi ha proseguito tutte le sue deliberazioni con l’autorità libanese, senza mostrare preoccupazione per il consenso interno sul piano, come invece aveva fatto nel 2020. Nell’ultimo periodo, il Fondo Monetario Internazionale è stato dipinto dai media libanesi come un’entità in grado di imporre riforme economiche al sistema politico e salvare il paese attraverso il suo programma di prestiti. Tuttavia, gli ultimi sviluppi delle trattative, in particolare il modo in cui si sono svolti questi colloqui, non sono di buon auspicio.”

Nel frattempo, sono emersi due modelli capaci di chiarire le sorti del tentativo di colmare le perdite nei bilanci della Banque du Liban tramite la vendita di immobili demaniali e la costituzione di una società per investire beni pubblici, come racconta lo stesso giornalista in un articolo successivo.

Il primo modello riguarda la gara d’appalto indetta dal Ministero dei Lavori Pubblici e dei Trasporti per l’affidamento della gestione e dell’esercizio del terminal container nel porto di Beirut. Dal 2004 lo Stato libanese assegna questo servizio alle imprese private tramite una gara d’appalto.

L’ultima scadenza per la presentazione delle offerte era l’11 gennaio, ma lo Stato non si è assicurato le tre offerte che avrebbero permesso la validità dei risultati della gara. Per questo motivo, il ministero ha prorogato il termine alla fine di questo mese.

Il secondo modello ha a che fare invece con le società di forniture elettriche, per le quali i contratti sono scaduti alla fine dello scorso anno. In questo caso, il ministero ha preferito estendere questi contratti per circa un anno e mezzo senza condurre alcuna gara, appellandosi alle le conseguenze del tracollo finanziario in corso, che non consente alle imprese di ottenere le garanzie bancarie necessarie per partecipare alla gare d’appalto.

Ma allo stesso tempo, l’estensione dei contratti è stata occasione per rinegoziare con queste società per aumentare i loro ricavi, nonostante l’incapacità di fornire i servizi richiesti.

La situazione finanziaria, insomma, non ha consentito di attrarre un numero sufficiente di imprese, estere o locali. Questo tipo di gestione in tali circostanze finanziarie, riflette Noureddeen, non significa altro che cedere i settori interessati al prezzo più basso, per cui lo Stato libanese non potrà trarre un reale vantaggio da queste privatizzazioni.

Conclude scrivendo: “la privatizzazione oggi rappresenta il prezzo da pagare per far uscire il sistema bancario dalla crisi, al fine di ridurre il costo che sarà pagato dal capitale del settore. E questo risultato, a prescindere dalla nostra opinione iniziale sulla privatizzazione come approccio al rapporto tra pubblico e privato, non è più accettabile nemmeno con la logica del sistema capitalista. Per non parlare della logica della giustizia sociale, che dovrebbe indirizzare la nostra visione delle cose in questo periodo storico.”

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