I documentari in Afghanistan di Noriaki Tsuchimoto
Il regista Con riprese accumulate in varie spedizioni il cineasta giapponese ha composto due film che salvano dall'oblio luoghi e volti travolti dalla Storia
Il regista Con riprese accumulate in varie spedizioni il cineasta giapponese ha composto due film che salvano dall'oblio luoghi e volti travolti dalla Storia
Conosciuto soprattutto per i suoi numerosi lavori con cui per più di trent’anni ha documentato l’avvelenamento da mercurio nelle acque di Minamata e i suoi effetti sulla popolazione del luogo, Noriaki Tsuchimoto nella sua carriera si è occupato più volte anche dell’Afghanistan. Fra il 1985 e il 1988, si recò infatti per tre volte nel paese, assieme ad altri registi, per realizzare il documentario Afghan Spring (1989). Dal materiale visivo inutilizzato per questo lavoro, nel 2003, in risposta all’invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti, Tsuchimoto decise di realizzare due brevi documentari, Another Afghanistan: Kabul Diary 1985 e Traces: The Kabul Museum 1988. Entrambi offrono uno spaccato su un periodo e su luoghi di cui sono rimaste ben poche testimonianze visive.
Il primo documentario ci racconta dei cambiamenti che stavano attraversando la società afghana del periodo, a Kabul, Tsuchimoto e la sua troupe riprendono, tra i pochi autorizzati ufficialmente a filmare durante l’occupazione sovietica, la vita quotidiana nelle strade. Nomadi che si mescolano agli abitanti delle città, moderni condomini accanto a moschee e bazar, e donne che frequentano scuole e istituti professionali. L’occhio di Tsuchimoto si sofferma soprattutto sull’istruzione offerta alle donne, un cambiamento che significa per la popolazione femminile la possibilità di prendere attivamente parte alla società afghana del tempo, e l’opportunità di imparare dei lavori, nello specifico cucire a macchina, per poter così raggiungere un certo livello di indipendenza economica.
NELLA CAPITALE, le riprese furono forzatamente limitate a Kabul e alle zone circostanti, Tsuchimoto ci mostra anche come migliaia di giovani, per lo più ragazze, frequentassero, dopo la scuola, dei corsi di lingua inglese. Dopo alcune scene in cui viene mostrato come il progetto della collettivizzazione della terra non fosse ben accetto tra i contadini del luogo, il documentario si chiude con le immagini, festose, della folla oceanica in occasione dell’anniversario della Rivoluzione d’aprile.
Traces The Kabul Museum 1988, anche questo assemblato nel 2003, nasce in realtà più indietro nel tempo, quando nel 1992 Tsuchimoto legge su un articolo di giornale che il Museo di Kabul, o il Museo Nazionale dell’Afghanistan, era stato quasi completamente distrutto. Il regista giapponese decide di usare il materiale visivo non utilizzato decenni prima, in quanto rappresenta l’unico documento filmato del museo e degli oggetti d’arte in esso contenuti prima dei bombardamenti avvenuti durante la guerra civile che ne distrussero più del settanta per cento. Si tratta di immagini che restituiscono le tracce artistiche della complessa e antica storia che ha attraversato e contribuito a plasmare il paese e la sua cultura. Si vedono statue, monete ma anche sculture dai lineamenti greco-romani appartenenti al Regno greco-battriano. La bellezza di alcuni visi di divinità buddiste ma con forti ed evidenti influenze elleniche è un chiaro esempio di come le culture che hanno abitato la zona siano il risultato di un continuo processo di ibridizzazione. Ciò che fa piangere il cuore ancor di più, e Tsuchimoto lo dichiara esplicitamente nel documentario, è che il materiale che era esibito nel 1988 al museo, era solo una minima parte di tutto ciò che era lì custodito in attesa di classificazione.
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