I disperati della giungla che sognano Londra
Immigrati Tra le dune tra Calais e Dunkerque si nascondono migliaia di sudanesi, eritrei, afghani e siriani. La polizia ha demolito i campi vicino al porto e sgomberato gli edifici occupati, ma non riesce a fermare la marea di disperati che provano a entrare in Inghilterra
Immigrati Tra le dune tra Calais e Dunkerque si nascondono migliaia di sudanesi, eritrei, afghani e siriani. La polizia ha demolito i campi vicino al porto e sgomberato gli edifici occupati, ma non riesce a fermare la marea di disperati che provano a entrare in Inghilterra
«Avete dell’Antidox?» Non ho idea di cosa si tratti. «E’ uno spray, me lo spruzzo addosso così i cani non sentono l’odore». Nella «giungla» di Calais, Jacob si prepara alla traversata della Manica. Sono appena dodici chilometri fino a Dover, poca roba in confronto al viaggio dalla Libia fino a Lampedusa che gli ha aperto le strade dell’Europa. Durante l’occupazione nazista, più di un francese per sfuggire agli invasori lo percorse addirittura a nuoto. Ma oggi per gli immigrati come Jacob superare la Manica è persino più complicato che sbarcare in Europa. Le porte d’ingresso all’Inghilterra sono sbarrate: il porto è controllato militarmente e la stazione di Fréthun, dove partono i treni per Londra, è una specie di prigione a cielo aperto. Il binario è protetto da un’inferriata e sorvegliato da telecamere e militari, i cancelli vengono aperti solo nell’imminenza del passaggio del convoglio e previa presentazione del biglietto. Bisogna superarne un paio e vederseli richiudere alle spalle prima di giungere alla meta. Se si vuole trovare una rappresentazione materiale della Fortezza Europa bisogna venire in questa cittadina di frontiera del nord del continente.
La Francia non sa come comportarsi con la marea di disperati che si alza o si abbassa a seconda delle circostanze: una guerra in Medioriente, una primavera araba finita male, una crisi improvvisa in un paese africano. Il governo socialista, pressato da un’opinione pubblica sempre più insofferente, risponde a suon di sgomberi la cui efficacia è solo mediatica ma che sortiscono l’unico effetto di gonfiare quella che gli immigrati chiamano «la giungla», una teoria di dune e foreste che si estendono per una cinquantina di chilometri fino a Dunkerque. Va avanti così da anni, ma la volontà disperata di chi ha traversato il deserto e il Canale di Sicilia, l’intera penisola italiana e tutta la Francia e ora si sente a un passo dall’Eldorado è più forte dei gas lacrimogeni e dei controlli. Se si è sfidata la morte per traversare il deserto e il Mediterraneo, figuriamoci se spaventa quest’ultima sfida.
Jacob sa che ancora una volta rischia la vita. Dovrà infilarsi nel cassone di un tir e sperare di passare indenne ai controlli, di sfuggire ai cani poliziotto grazie all’antidoto anti-odore e di non rimanere soffocato o schiacciato. Nella tragica contabilità di questa epocale tragedia contemporanea non ci sono solo le vittime del Mediterraneo o di Ceuta e Melilla, ma pure le morti della Manica. Asfissiati in una cella frigorifero, come accadde nel 2008 a 58 cinesi, o investiti da un tir com’è capitato a due giovani solo qualche mese fa nel tunnel sotto il mare. Negli ultimi quattro anni, alla frontiera di Calais hanno perso la vita 22 persone, quattro negli ultimi sei mesi. Poca roba, se si pensa agli 800 morti accertati nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno, ma pur sempre un tragico bilancio che va ad accrescere il conto complessivo di una delle più grandi tragedie del nostro tempo. Il numero dei disperati fermati tra gennaio e giugno mentre tentavano di passare in Gran Bretagna è più che raddoppiato in un anno: erano 3.129 nello stesso periodo del 2013, sono stati 7.414 quest’anno.
Sgomberi a go go
Mi accompagno tra le dune a due attiviste di Medécins du Monde, che vanno a caccia di migranti per fornire loro assistenza medica e, come accade in casi del genere, qualsiasi altro tipo di conforto. La ong ha un piccolo ambulatorio proprio davanti al porto, a pochi passi dall’ultimo campo sgomberato. A rue de Moscou, nello spiazzo di un grande centro di distribuzione commerciale, vivevano oltre seicento persone, e nello stesso giorno sono stati evacuati con la forza altri tre edifici occupati, su richiesta del sindaco Natacha Bouchart, un’esponente dell’Ump di Nicolas Sarkozy che è riuscita a contenere l’avanzata del Front Nazional grazie a una politica «legge e ordine». Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, nel 2000, la classe operaia di Calais si sentì quasi in paradiso quando la squadra di calcio locale, semiprofessionistica, arrivò alla finale della Coppa di Francia. I giocatori, persa la partita col Nantes, furono accolti in maniera trionfale al ritorno in città e il giorno dopo ripresero la vita di sempre. La star Mickael Gérard tornò a fare il magazziniere. Oggi, con una crisi economica che ha devastato il tessuto sociale, le sirene xenofobe si fanno sentire più che altrove e la guerra tra poveri è dietro l’angolo: lo scorso 13 giugno un ventiseienne del posto ha sparato con un fucile ad aria compressa contro due immigrati, un eritreo e un sudanese, mandandoli all’ospedale.
E’ in questo clima che sono avvenuti gli ultimi sgomberi. Appena è arrivato il via libera del tribunale di Lille la polizia non ha perso tempo: ha accerchiato il campo all’alba, ha evacuato giornalisti e attivisti che avevano passato la notte con i migranti, poi ha sgomberato la baraccopoli senza lesinare in lacrimogeni. Gli abitanti sono stati trasferiti in alcuni centri di accoglienza lontano da Calais, in particolare a Valenciennes, quelli che sono riusciti a fuggire si sono sparpagliati nelle foreste lungo la costa. Per questo le organizzazioni umanitarie sono impegnate in una sorta di censimento di questo «popolo della giungla». Nessuno sa esattamente quante persone vivano in questo modo, perché la terra di nessuno si riempie e si svuota a seconda delle circostanze. «In questo periodo stanno arrivando più o meno un’ottantina di persone nuove al giorno», mi spiega Christine, una delle due attiviste di Médecins du Monde.
Troviamo Jacob tra gli alberi, poco lontano da un anonimo piazzale asfaltato, nella zona commerciale di Gosselies. Ovunque ci siano delle piante e una radura, un posto riparato e abitabile, si nota qualche tenda di fortuna, degli abiti, insomma segni di vita. Con lui ci sono una quarantina di sudanesi, molti provengono dal Darfur. Non tutti parlano l’inglese e «il francese è troppo difficile per noi», prova a spiegarmi uno di loro. Sono tutti maschi, alcuni molto giovani. Un paio indossano t-shirt «italiane». Una di queste celebra la Festa mondiale del rifugiato 2014 e ha una scritta, «Umberto I». Con ogni probabilità, il mio interlocutore era alla Villa comunale Umberto I di Formia, lo scorso 20 giugno.
Tranne due o tre, sono tutti passati dall’Italia. Curiosamente, nessuno di loro ne conserva un cattivo ricordo. Di Roma, «bellissima», hanno come punto di riferimento la Stazione Termini. Uno di loro mi dice di aver alloggiato in un centro di accoglienza fuori dalla città, dalla descrizione si tratta forse di Castelnuovo di Porto. Chiedo loro perché non sono rimasti nel nostro Paese. «Cosa ci rimanevamo a fare?», rispondono più o meno tutti. Le mete oggi sono altre: la Germania, i paesi scandinavi, l’Inghilterra. L’Italia, così come la Grecia, in questo momento è considerata un punto di passaggio.
«Cerchiamo di andare dove abbiamo la possibilità di fare qualcosa», mi dice Jacob. Lui viene dal Nord Darfur, ha studiato a Khartoum, poi è partito per la Libia e infine per l’Europa, «perché in Africa la situazione è davvero brutta». La lingua, la presenza di una comunità che possa accoglierli, la possibilità di lavorare: sono questi i motivi più ricorrenti per i quali si sceglie la Gran Bretagna, un paese agli antipodi rispetto al punto d’ingresso in Europa e che necessita, per raggiungerlo, di ulteriori sforzi e pericoli.
Cena con vista mare
Alle 18 l’associazione Salam serve la cena in uno slargo ai margini di un canale. E’ in quest’occasione che gli immigrati, o almeno quelli che non sono molto lontani dalla cittadina, escono dalla giungla per avere un pasto caldo e qualche bevanda da riportarsi indietro. Mi consigliano di andarci perché è lì che si capirà se lo sgombero ha avuto l’effetto di allontanare definitivamente i migranti da Calais oppure no. Finora questa strategia non ha funzionato granché: nel giro di un paio di giorni sono di nuovo tutti là a cercare un modo per arrivare in Gran Bretagna. Non sanno che farsene di un dormitorio: l’obiettivo è la Gran Bretagna.
Va avanti così almeno da quando, nel 2002, l’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy decise di chiudere il centro d’accoglienza di Sangatte, gestito dalla Croce Rossa. Nel 2009 la storia di questa Lampedusa del nord fu raccontata in un film, Welcome, di Philippe Lioret, il cui protagonista è un istruttore di nuoto che aiuta un giovane iracheno ad attraversare la Manica. Fecero discutere, all’epoca, le parole del regista che paragonò il trattamento dei migranti a quello degli ebrei durante il regime di Vichy. Durante il governo Sarkozy, il ministro dell’Immigrazione Eric Besson, ex socialista, si fece vedere tra le dune e promise di ripristinare lo Stato di diritto: «La legge della giungla è terminata». Qualche anno dopo, siamo ancora allo stesso punto.
A pochi giorni dall’ultima prova di forza, la seconda in grande stile dopo le elezioni europee, trovo centinaia di immigrati in fila ordinata davanti a un pullmino che serve il cibo. Altri attendono distesi sull’erba o facendo capannello tra loro. Non vedo i sudanesi che avevo incrociato nella giungla, mi spiegano che qui vengono soprattutto gli eritrei. Tutti, o quasi, maschi, anche in questo caso. Molti indossano cappelli di lana e abiti invernali anche se siamo in piena estate e la giornata è calda, per queste latitudini. La gran parte di loro vengono dal campo sgomberato di rue de Moscou. A terra, strappati, diversi biglietti del treno lasciano intendere che molti hanno lasciato i centri d’accoglienza dov’erano stati portati per tornare qui. Ne desumo che l’operazione di polizia è ancora una volta servita solo per placare gli umori peggiori dell’opinione pubblica.
Intavolo una conversazione con un giovane afghano, che mi mostra i graffi alle braccia che si è fatto per farsi largo nella foresta: «è fatta per le scimmie, non per gli esseri umani», dice. Racconta della difficoltà di essere soli, senza soldi, in paesi dove tutto è diverso e incomprensibile. «A Parigi sono rimasto per tre giorni senza mangiare e senza sapere dove andare a dormire». Si avvicina un altro giovane, dai tratti asiatici. «Vengo dall’Uzbekistan», dice sorridendo. Ha la moglie e un bambino in Inghilterra, anche loro clandestini, ma non riesce a raggiungerli. Tira fuori il cellulare e mostra una foto: «Eccolo, da quando è nato non sono ancora riuscito a vederlo». Sostiene di aver vissuto qualche mese in Polonia, non è riuscito a ottenere un visto per Londra e ora sta tentando di passare clandestinamente. «Ma non sono abituato a vivere in questo modo, cerco di curarmi al meglio, di mantenere gli abiti puliti e di radermi tutte le mattine, però è difficile. Se mi vedesse mia madre chissà cosa direbbe». Non mi rimane che augurargli buona fortuna.
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