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I digital workers cinesi sfruttati dai privati e dalla censura di Stato

I digital workers cinesi sfruttati dai privati e dalla censura di Stato

Forza Lavoro La «lower middle class» è schiacciata da dinamiche di mercato ultra-liberiste, appesantite dalla volontà statale di guidare i processi. Ogni azienda è costretta a verificare i propri contenuti in linea con il volere del Partito Comunista cinese 

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 28 aprile 2018

Molti cinesi emigrati negli Usa e impiegati nella Silicon Valley, secondo Bloomberg, stanno facendo ritorno in Cina per sfruttare al meglio le potenzialità del mondo digitale voluto da Pechino.

E se Wechat è un catalizzatore di digital workers ormai riconosciuto nel mondo (è la app più usata in Cina e serve per chattare, informarsi, giocare, pagare qualsiasi cosa, prenotare, affrontare la burocrazia locale), SenseTime costituisce il fiore all’occhiello della recente spinta cinese sull’intelligenza artificiale. E proprio SenseTime è tra i motivi del ritorno in patria di tanti cinesi emigrati e specializzati in Intelligenza Artificiale.

L’app infatti è avveniristica per quanto riguarda il riconoscimento facciale ma deve fare i conti con lo stretto controllo che la polizia cinese vuole avere su quei dati. La condizione dei lavoratori digitali cinesi, infatti, pur essendo ormai da considerarsi simile a quella di tanti altri paesi, non può prescindere dalle «caratteristiche cinesi», ovvero dall’ambiente creato dalle evoluzioni del sistema economico nazionale nel quale i lavoratori si trovano ad operare.

Le aperture dell’epoca post maoista (fine anni ’70) hanno finito per creare meccanismi neoliberisti, ma «controllati» dallo Stato. Questo sistema ha dato vita a un’industria digitale formata per lo più da aziende private, ma iper controllata dallo stato. Come ha scritto su Foreign Affairs Elizabeth C. Economy, «nella sfera politica, il Pcc ha sfruttato le nuove tecnologie per esercitare una maggiore pressione sul settore privato, limitando così l’accesso ai contenuti proibiti online, riducendo drasticamente la vivacità della piazza virtuale della Cina». La censura, in questo senso, determina una condizione del tutto particolare dei lavoratori digitali cinesi.

Posto che l’economia derivante dalla fruizioni di informazioni dalle piattaforme on line inciderà non poco sulla crescita cinese nei prossimi dieci anni (nel 2009 avrebbe influito per il 5% nel Pil nazionale) le condizioni di vita dei lavoratori del settore anziché aprire le strade verso una condizione sociale di «classe media» finisce per proletarizzare una larga fetta di persone impiegate.

Secondo la studiosa dell’università di Leeds, Binqing Xia, «i lavoratori digitali in Cina hanno una posizione inferiore rispetto ai dipendenti pubblici e delle aziende di stato, ma questo non indica che abbiano una posizione inferiore nella struttura sociale cinese; hanno ancora una posizione privilegiata rispetto alla classe operaia cinese. In altre parole, la maggior parte dei digital workers in Cina occupa la posizione più bassa nella classe media nazionale» (Digital Labour in Chinese Internet Industries, 2014).

Si tratta dunque di una «lower middle class», il ceto medio basso, determinata da una società dove al vertice si trovano funzionari statali e di partito e in cui il destino personale dipende in gran parte dall’appartenenza «familiare» e dai guanxi, la rete relazionale pietra angolare della società cinese. Spesso gli straordinari e le giornate intere dedicate al lavoro da parte dei digital workers cinesi sono richieste proprio dallo strambo connubio che in Cina esiste tra imprese private e Stato.

Ogni azienda, infatti, deve attrezzarsi perché i contenuti che «passano» attraverso la propria piattaforma, rispecchino il volere dello Stato per quanto riguarda la censura di argomenti proibiti. La classe dei lavoratori digitali, dunque, si ritrova in mezzo a dinamiche di mercato ultraliberiste, appesantite dalla volontà statale a guidare questi processi.

A Tianjin, a nord di Pechino, esiste quello che viene chiamato «quartiere della censura», dove operano lavoratori che diventano «poliziotti informatici»: controllano il web per conto di aziende private – ma su indicazione dello stato – cercando di ripulirlo da elementi «negativi». Rispetto al primo filtro del Great Firewall (che blocca siti internet sgraditi), riescono a lavorare più di fino. Toutiao, una di queste aziende, ha oltre 20mila dipendenti e sta addestrando anche le intelligenze artificiali perché imparino a scandagliare la rete e bloccare contenuti.

Prima di tutto questo c’era l’Esercito dei 50 cents, una vera e propria «armata» di freelance che, remunerata dal Governo (5 centesimi di yuan appunto), si occupava di tenere sotto controllo l’opinione pubblica online. Si tratta più di manipolazione che di censura: l’Esercito dei 50 cents – che di recente Chen Qiufan, uno scrittore di fantascienza, ha definito «xenofobi» – manipolava le discussioni online a favore del governo.

Non cancellava i post, ma commentava, precisava, interveniva in ogni forum o ambito di discussione on line. Si tratta di qualcosa di più complesso di una semplice forma di censura, è il tentativo di controllare e indirizzare l’opinione pubblica online, sfruttando quegli stessi lavoratori che con quegli strumenti potrebbero creare invece una «resistenza» al sistema.

Un meccanismo perfetto, almeno all’apparenza, per controllare e gestire lo sfruttamento dei lavoratori della rete. Secondo i dati diffusi dal Beijing News, la Cina avrebbe oltre 2 milioni di persone nei dipartimenti governativi e nelle aziende private dedicate solo a occuparsi di controllare i contenuti online. Un numero che è destinato ad aumentare.

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